Si fa sentire per la prima volta dallo scoppio dello scandalo “data-gate” il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, che ha chiesto scusa agli utenti per gli “errori commessi”. Il giovane magnate ha assicurato che già da anni sono state adottate iniziative a tutela della privacy di chi utilizza il suo social e al contempo ha annunciato nuove misure per minimizzare i rischi di abuso da parte di società terze, attraverso un processo di monitoraggio di tutte le app che hanno avuto accesso ai dati dei profili e revisionando le condizioni contrattuali d’ora in avanti, in modo che queste società abbiano accesso solo a nome profilo, foto e email e che questo venga perso nel caso in cui l’app non venisse utilizzata dall’utente per almeno tre mesi.

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Lo scandalo ha provocato un tonfo dell’8,5% delle azioni Facebook rispetto ai valori di chiusura di venerdì scorso e inclusivo del recupero dell’1,2% di ieri. L’attenzione per la privacy è e sarà un tema dominante per le potenti realtà del web, il cui successo passa per la capacità di sfruttare al meglio i “big data”, vendendo miliardi di informazioni raccolte a società che avranno modo di elaborarle per scopi commerciali o anche politici. Parliamo di un argomento molto delicato, perché potenzialmente a rischio vi sarebbe persino la democrazia, nel caso in cui determinate informazioni arrivassero a chi li sfrutterebbe per manipolare milioni di menti e spingerle a votare questo o quel partito o candidato. E’ in sostanza il succo della protesta contro il social di questi giorni, accusato di avere reso possibile alla macchina elettorale di Donald Trump targetizzare 50 milioni di utenti con pubblicità mirate.

Il web è solo in apparenza gratis

Siamo all’ipocrisia, inutile girarci intorno. E non solo perché ad avere abilmente sfruttato Facebook era stato sin dal 2008 Barack Obama, che si disse allora abbia vinto anche grazie alla capacità del suo team di puntare sul pubblico social, quanto soprattutto per il fatto che l’iscrizione stessa a un social gratuito presuppone che l’utente “paghi” in una modalità diversa da quella monetaria.

Postiamo ogni giorno immagini di noi stessi, dei nostri cari, dei luoghi che visitiamo, le nostre opinioni, raccogliendo “like” e mettendone altrettanti ai post di amici e link che visualizziamo sulla nostra bacheca e che spesso condividiamo. Messaggiamo con gli amici, ne aggiungiamo di nuovi e siamo aggiunti a nostra volta. Ormai, una elevata percentuale di relazioni amorose nasce proprio grazie al web, che ormai sembra avere sostituito l’approccio fisico in un locale, consentendo a tutti di conoscere tutti o almeno di cercare di farlo.

Tutto questo, gratis. Credete per caso che il denaro lo si raccolga sugli alberi? Come fanno realtà come Facebook e Google, solo per citare i due giganti del web, a fatturare una cifra combinata come 150 miliardi di dollari all’anno? Con la pubblicità, direte. Certo, essenzialmente è il loro business, ma affinché gli investimenti pubblicitari abbiano un senso e siano proficui, diventa necessario restringere il più possibile la platea dei potenziali interessati al prodotto che s’intende vendere. Il caso più elementare è quello di un’azienda che punti a vendere i suoi prodotti in un’area geografica circoscritta, magari coincidente con una provincia o regione italiana. Inutilmente dispendioso sarebbe per essa lanciare messaggi promozionali nelle bacheche degli utenti di tutta Italia. Pagherebbe il social molto più di quanto avrebbe bisogno per aumentare il fatturato. Da qui, la geo-localizzazione della pubblicità. Nulla di ignoto.

Tuttavia, il fattore geografico, così come quello sessuale (uomo o donna) non sono gli unici ad essere dirimenti per direzionare gli investimenti pubblicitari nel web.

Se sono un’azienda, vorrei sapere chi siano esattamente i miei potenziali clienti sulla base del prodotto o servizio che vendo. Per scoprirlo nel modo più dettagliato possibile bisogna affidarsi ad esperti di “psicometria”, quell’applicazione dei numeri alla psicologia, grazie all’elaborazione dei dati derivati dagli utenti, come i “mi piace”, i tipi di post condivisi, l’iscrizione a gruppi social, etc. Supponiamo che emerga che le mie T-shirt risultino apprezzate da uomini di età compresa tra 25 e 30 anni e inclini ad abbracciare determinate posizioni ideologiche. Diverrà profittevole puntare proprio su questi profili, anziché sparare sul mucchio. Si massimizzerà il risultato con il minimo dispendio.

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Regole non bastano, serve maggiore istruzione

Ora, nel caso di Cambridge Analytica saranno pure state violate le regole del social, ma poco importa. Il dato saliente che traspare dalla vicenda è che oltre 2 miliardi di utenti Facebook nel mondo hanno deciso da anni di cedere informazioni anche molto sensibili su di loro, ritenendo ciò il prezzo da pagare per usufruire di servizi evidentemente percepiti dal valore non inferiore a quello assegnato alla propria privacy. E’ la voglia di farsi notare in un mondo altrimenti in cui saremmo anonimi, di recitare spesso il ruolo di opinion leader tra la cerchia di amici, molti dei quali non abbiamo nemmeno mai incontrato in carne e ossa e delle cui vite nulla sappiamo, se non le ultime pietanze degustate o il luogo della vacanza in corso.

Non ci sono solo risvolti negativi da questo mercimonio tra privacy e pubblicità mirata. Grazie a quest’ultima, possiamo conoscere l’offerta di un prodotto, un servizio, persino di una piattaforma politica che si confà ai nostri interessi, scartando messaggi promozionali altrimenti poco o affatto graditi. Sarebbe come se in TV passassero solo gli spot a noi graditi. Certo, a lungo andare una simile logica rischia di segmentare l’utenza e di chiuderla in recinti dai quali non riesce ad uscire proprio per la scarsa conoscenza di offerte che vadano oltre i gusti dichiarati e desunti dalle nostre attività social.

Quanto al rischio di manipolazione, esso di combatte con l’accrescimento della consapevolezza delle tecniche utilizzate dal web e, soprattutto, innalzando nel tempo il livello di istruzione, in modo da sventare sul nascere l’efficacia di campagne “fake”, abbastanza proficue tra i poco scolarizzati e quelli che da tempo vengono definiti “analfabeti funzionali”. E l’Italia, purtroppo, figura all’apice delle classifiche internazionali per incapacità dei suoi residenti di comprendere appieno un testo. Non basta più oggi sapere solo leggere e scrivere. Viviamo in un mondo complesso e che necessita di conoscenze approfondite. Il problema non sono né i social, né internet in sé, quanto proprio l’incapacità di molti di elaborare i contenuti visualizzati in maniera critica e autonoma.

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