Ieri, il dollaro è arrivato a perdere oltre mezzo punto percentuale mediamente contro le altre principali valute, dopo che la Federal Reserve ha esplicitato l’intenzione di proseguire con il suo armamentario monetario, delineando prospettive fosche per l’economia americana nel medio termine, a causa del Coronavirus. Inoltre, ha comunicato le previsioni sui tassi per i prossimi anni, lasciando intendere che rimarranno azzerati fino al 2022. Insomma, a breve e medio termine non vi saranno né ulteriori tagli sottozero, né rialzi.

Cambio euro-dollaro in rialzo prima della Fed, ecco perché e cosa attenderci

Il dollaro si è riportato sostanzialmente ai livelli di apertura di quest’anno, sebbene a marzo fosse arrivato a guadagnare circa l’8% in scia alle tensioni internazionali seguite alla diffusione della pandemia in Occidente.

Eppure, in questi mesi di crisi non abbiamo più sentito il presidente Donald Trump invocare il dollaro debole per accrescere le esportazioni. Semmai, nelle scorse settimane ha redarguito via Twitter il governatore Jerome Powell, reo di non adottare anche per l’America i tassi negativi, come stanno facendo tutte le altre grandi banche centrali.

Mai come adesso la Casa Bianca avrebbe dovuto perseguire l’indebolimento del cambio, seguendo la sua logica ostentata in questi anni. Vero, i tassi negativi condurrebbero teoricamente allo stesso risultato, ma questo scenario coerente non è automatico per Trump, stando alle sue stesse dichiarazioni del passato. Prima di arrivare alla presidenza, ad esempio, il tycoon chiedeva tassi più alti e un dollaro più debole, ma sappiamo che le due cose non andrebbero di pari passo.

Niente tassi negativi per indebolire il dollaro

La verità è che probabilmente Trump stesso potrebbe aver toccato con mano in questa fase finanziariamente drammatica quanto importante sia per società, banche e stato godere di costi di rifinanziamento bassi, i quali dipendono sì dall’ambiente monetario creato dalla banca centrale, purché risulti a sua volta percepito compatibile con i fondamentali economici.

In altre parole, il dollaro negli ultimi mesi si è rafforzato per effetto degli afflussi di capitali dal resto del mondo, essendo l’America considerata un “porto sicuro”.

E i risparmi degli altri stati hanno giovato a Main Street per indebitarsi a costi bassi e anche a lungo termine, consolidando i bilanci aziendali e familiari, oltre che i conti pubblici. Ma questo è stato possibile grazie ad aspettative sul dollaro nel lungo termine stabili o in calo non drammatico, a seconda della valuta. In altre parole, se la Fed avesse esplicitamente manovrato il tasso di cambio o lasciato intendere di perseguirne uno, l’afflusso dei capitali negli USA sarebbe risultato inferiore per via del rischio valutario e le aspettative d’inflazione sarebbero state superiori, visto che il cambio debole tende a impattare al rialzo sui prezzi al consumo.

In definitiva, l’America si sarebbe ritrovata con tassi anche più bassi di oggi sul tratto medio-breve della curva delle scadenze, risentendo di un politica monetaria ancora più accomodante e magari dei tassi negativi invocati dalla Casa Bianca; per contro, sul tratto medio-lungo avremmo assistito a una lievitazione dei rendimenti su livelli ben maggiori di quelli odierni. Altro che consolidamento del debito pubblico ed emissioni a basso costo di debiti corporate. Insomma, la stessa idea dei tassi negativi tende a contrastare con quella di un porto sicuro che si regge sui risparmi altrui, senza i quali sarebbe costretto a indebitarsi a costi superiori e non certo inferiori.

I tassi negativi scuotono l’America, Trump e Powell ancora una volta divisi

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