“Deviazione senza precedenti” rispetto ai vincoli fiscali contenuti nel Patto di stabilità. Queste le tre parole chiave della lettera inviata dalla Commissione UE all’Italia, firmata Pierre Moscovici e Valdis Dombrovskis, con cui viene chiesta al governo Conte la correzione della manovra di bilancio ufficialmente presentata da Roma a Bruxelles lunedì sera. A preoccupare non è tanto la fissazione di un deficit al 2,4% del pil per il prossimo anno, visto che esso rientrerebbe nei limiti del 3% massimo consentito, quanto l’aumento dello 0,8% del cosiddetto “deficit strutturale”, a fronte di un impegno assunto lo scorso anno dall’Italia in sede europea per una sua riduzione dello 0,6% del pil.

Di cosa parliamo? Il deficit pubblico nominale è quello di cui si parla perlopiù sui media, quel 2,4% a cui dovrebbe tendere il disavanzo tra entrate e spese nel 2019, compresi gli interessi sul debito pubblico. Tuttavia, già da anni la Commissione europea si è impegnata a monitorare con maggiore attenzione l’evoluzione del deficit strutturale, fatto salvo il limite del 3% per quello nominale.

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Per deficit strutturale s’intende il disavanzo fiscale, corretto per l’andamento ciclico e per le voci una tantum. Facciamo un esempio pratico: il governo presenta a consuntivo ai commissari il bilancio dell’ultimo esercizio, da quale emerge che il deficit pubblico è passato dal 2% all’1,5% in un anno. In teoria, la direzione sarebbe positiva. Però, bisogna anche verificare come si è arrivati a tale riduzione. Se per ipotesi lo 0,7% del pil fosse stato ottenuto da entrate straordinarie (condoni fiscali, privatizzazioni, anticipi di imposte, etc.), in realtà si ottiene che, al netto delle misure una tantum, il deficit sarebbe aumentato al 2,2% del pil. Lo stesso dicasi se si riscontrasse un aumento del deficit dal 2% al 2,5%, ma si avesse che l’intero incremento sarebbe da attribuire alla maggiore spesa per la cassa integrazione e i sussidi di disoccupazione, a causa dell’andamento economico avverso.

In questo caso, il deficit strutturale sarebbe rimasto inalterato, cioè al netto della componente ciclica.

La Commissione è preoccupata per quello 0,8% in più di maggiore disavanzo non occasionale che l’Italia presenterà dall’anno prossimo. Parliamo di un valore pari a oltre 14 miliardi di euro, nei fatti corrispondenti alla somma tra i costi necessari per implementare il reddito di cittadinanza (sugli 8 miliardi) e quelli per avviare “quota 100” sulle pensioni (sui 6 miliardi). Questi provvedimenti non sono transitori, bensì definitivi. Pertanto, impatteranno sul deficit strutturale, in assenza di coperture. A questo punto, l’Italia avrebbe modo di tendere la mano ai commissari in due modi: riducendo la portata dell’aggravio sul bilancio statale, finanziandolo tramite maggiori entrate e/o tagliando altre voci di spesa o anche approvando soluzioni meno radicali; rassicurando sulla loro natura transitoria, ovvero impegnandosi a introdurre il reddito di cittadinanza e a consentire ai lavoratori di andare in pensione prima dell’età richiesta dalla legge Fornero solo per un periodo di anni relativamente basso.

Rassegnati alla crisi?

Attenzione, però, a un altro dato apparentemente tecnico, ma che sta gravando in negativo sulle valutazioni dei bilanci italiani da parte di Bruxelles: l’“output gap”. Trattasi della differenza tra il pil potenziale e quello effettivo. Il pil potenziale sarebbe quello a cui una economia potrebbe tendere. Qui, da anni tra Roma e Bruxelles esistono dati discordanti. Ad esempio, il governo Gentiloni stimava per il 2017 un output gap al 2,1% e per quest’anno all’1,2%, mentre per i commissari esso sarebbe stato rispettivamente dello 0,8% e praticamente nullo. Perché è importante per giudicare una manovra? Su di esso vengono valutati gli sforzi sul deficit strutturale. Quando un’economia cresce meno del suo potenziale, i commissari riconoscono al governo la possibilità di prendersi più tempo per aggiustare i conti pubblici.

Quando, invece, l’economia cresce in linea o, addirittura, sopra il suo potenziale, gli sforzi richiesti sul fronte fiscale aumentano.

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Ora, siamo dinnanzi a un paradosso persino offensivo per il nostro Paese: secondo la Commissione UE, il pil italiano si sarebbe già portato al suo potenziale, per cui non ci vengono più concessi sconti sul deficit. E questo, nonostante alla fine del 2017 avessimo un pil reale del 5,5% più basso di quello del 2007 e continuiamo a mostrare un tasso di disoccupazione intorno alla doppia cifra, che riguarda ancora un terzo della popolazione giovanile. Come mai i commissari non ne tengono conto? Brutalmente parlando, quando un’economia trascorre parecchio tempo sotto il suo potenziale, come sta accadendo all’Italia da molti anni, diversi studi dimostrerebbero che il pil potenziale stesso si ridurrebbe, seguendo quello effettivo. In altre parole, l’Italia avrebbe raggiunto un nuovo più basso equilibrio, caratterizzato da alta disoccupazione e minore produzione, ossia da un sotto-utilizzo delle sue risorse (lavoro e capitale). Detto in altri termini, dovremmo rassegnarci a restare dove siamo, cosa che Roma non accetta e non da oggi, tant’è che lo stesso ex ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ebbe modo di disquisire sul punto lo scorso anno.

Se l’Italia riuscisse a ottenere il riconoscimento di un output gap superiore a quello stimato dalla Commissione, qualche margine di manovra in più lo si strapperebbe. Non facciamo illusioni, però, perché ugualmente non ci verrebbe concesso un maggiore deficit strutturale dello 0,8% del pil, specie tenuto conto che il nostro stock di debito ammonta a 2.300 miliardi, il 131% del nostro pil, secondo rapporto più alto in Europa dopo la Grecia. Bruxelles ha paura di un dato sopra ogni altro: alla prossima crisi, l’Italia non disporrebbe più di margini fiscali per fronteggiare un’eventuale recessione economica, per cui o sarebbe costretta a chiedere assistenza finanziaria a organismi internazionali come l’ESM (e dietro un accordo europeo politicamente poco sostenibile) o si avviterebbe su sé stessa, aggravando i suoi squilibri e rischiando di trascinare con sé l’euro nel baratro.

Per questo, vorrebbe che il rapporto debito/pil scendesse più velocemente possibile, anche se francamente non si vede quale differenza sostanziale si avrebbe nel caso in cui all’arrivo di una crisi internazionale ci presentassimo con un debito al 120% anziché al 130%. E, soprattutto, difficile pensare di aumentare l’avanzo primario già al 2% (in linea con la Germania, mentre la Francia ha un disavanzo dell’1%), quando pure questi sacrifici appaiono insufficienti con il rialzo dei rendimenti, al netto delle tensioni degli ultimi mesi. E non c’è dubbio che proprio la UE, con questo clima da terrorismo finanziario sull’Italia, stia contribuendo ad allontanare la soluzione a un problema che non nasce e non muore con i “populisti” al governo, ma che risale ormai a un trentennio or sono.

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