Il debito pubblico italiano a maggio è salito a 2.327 miliardi di euro, in crescita di 64 miliardi da inizio anno. Sulla base del deficit atteso per il 2018, è verosimile che da qui a dicembre scenderà in valore assoluto di una trentina di miliardi. Sappiamo, infatti, che nel corso della prima parte dell’anno, il Tesoro è solito fare scorte di liquidità per ripararsi dal rialzo dei rendimenti atteso negli ultimi mesi, quando la liquidità diventa più scarsa sui mercati. Ad oggi modo, il nostro debito pubblico è ormai a quota 2.300 miliardi, a fronte di un pil che si dovrebbe attestare quest’anno sui 1.750 miliardi.

Le cifre negative non finiscono qui. Oltre i due terzi dei titoli negoziati sul secondario sono in mano agli investitori italiani e meno di un terzo è posseduto da investitori stranieri. Stando ai calcoli di Nomura, solo il 32% dei BTp risulterebbe in mano agli investitori stranieri, ma in questa percentuale rientrerebbe quella cinquantina di miliardi in possesso della BCE con gli acquisti realizzati tramite il “quantitative easing”. A conti fatti, la quota di stranieri sul titolo scenderebbe sotto il 30% del totale. Era al 52% nel 2010.

A completare l’allarme sull’appeal del debito tricolore vi è quel 5% appena di bond italiani posseduti da investitori residenti all’infuori dell’Europa. Ciò segnala un rischio percepito come altissimo, ovvero che l’Italia possa uscire prima o poi dall’euro. Altrimenti, non si spiegherebbe perché tra gli stranieri che acquistano i BTp, quasi tutti risultino essere dell’Eurozona. In pratica, chi vive al di fuori dell’unione monetaria non si fiderebbe dell’area, temendo uno sconquasso dell’euro per l’uscita di uno o più stati membri, e della capacità di Roma di continuare a rimanervi a lungo.

I BTp trovano un nuovo equilibrio, in attesa dell’esame di riparazione in autunno

I rischi di uno scarso appeal dei BTp senza il QE

Il mondo politico italiano si mostra quasi paradossalmente compiaciuto della bassa quota di titoli in mano a banche e fondi stranieri, ritenendo che la nazionalizzazione in corso del debito pubblico riduca i rischi di fuga dei capitali e, in un certo senso, il potere di ricatto della finanza internazionale.

In questo ragionamento vi è insito un dato inquietante, cioè che le famiglie, le banche, le assicurazioni e i fondi italiani che acquistano BTp siano disposti a tenerli in portafoglio in qualsiasi condizione, come se fossero mossi da un dovere morale verso lo stato. In realtà, con il QE ad essere crollata è pure la quota in mano alle famiglie, scesa dal 13% al 5%. Vero è che le banche italiane continuano a tenere i nostri bond, ma non fosse altro per la loro maggiore remunerazione (e “a rischio zero”) rispetto alle alternative disponibili.

Dunque, non vi è alcuna ragione per credere che l’autarchia finanziaria sia più rassicurante per il governo. Anzi, il vero problema sta proprio in questa convinzione, che spingerebbe l’esecutivo di turno a mostrarsi fiscalmente meno responsabile, temendo meno lo spread e le “ritorsioni” della finanza, quando dovrebbe preoccuparsi del perché in pochi all’estero vogliano acquistare i nostri titoli. L’anno prossimo, la BCE si limiterà a comprare solo 29 miliardi di euro di BTp con il programma di reinvestimenti post-QE, a fronte di acquisti complessivi quest’anno attesi sui 47 miliardi e in un ambiente già di tassi in rialzo. Confidare solo sugli investitori italiani è un azzardo più che un atto di fiducia.

E se il debito pubblico italiano fosse più solido di quello francese?

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