La crisi economica, finanziaria, sanitaria e politica del Libano attira le attenzioni di Berlino. Ieri, un paio di fonti hanno riferito all’agenzia Reuters che Francia e Germania si sarebbero offerte di provvedere alla ricostruzione del porto di Beirut, distrutto da violente esplosioni nell’agosto scorso. Sempre secondo tali indiscrezioni, i due stati europei avrebbero posto come condizione che la politica libanese quanto prima sblocchi l’impasse sulla formazione del nuovo governo e che questi s’impegni a varare riforme per il ritorno alla crescita dell’economia.

Il governo del premier uscente Hassan Diab si è dimesso a pochi giorni di distanza dall’incidente, ma da allora un nuovo esecutivo non è stato formato.

Il progetto tedesco consisterebbe nel mettere mano a un’area di 100 ettari, avvalendosi del supporto di una società per azioni quotata alla borsa del Libano e fondata dall’allora premier Rafik Hariri negli anni Novanta: Solidere. Peraltro, egli fu padre di Saad, premier incaricato da mesi dal presidente Michel Aoun e le cui dimissioni dalla guida del governo nell’ottobre 2019 diedero vita a una disastrosa fuga dei capitali, scatenando l’incredibile crisi economico-finanziaria di quest’ultimo anno e mezzo.

Se l’attivismo della Francia si è sinora giustificato con il passato storico del Libano, che fu colonia di Parigi fino al 1945, l’ingresso dei tedeschi nell’alveo delle potenze che seguono il dossier di Beirut rappresenta una novità inattesa e, per certi versi, interessante da un punto di vista geopolitico. Questo sarebbe il primo intervento diretto di Berlino nel Mediterraneo, oltretutto in un’area molto “calda” per via delle tensioni religiose e politiche.

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Il costo del progetto a cui starebbero lavorando Francia e Germania oscillerebbe tra i 5 e i 15 miliardi di dollari e creerebbe 50 mila posti di lavoro.

Cifre, che fanno capire il forte impatto che l’opera avrebbe sull’economia domestica, collassata in quest’ultimo anno e mezzo a circa 50 miliardi di dollari. Non vi entrerebbe la Banca Europea per gli Investimenti, in quanto il suo coinvolgimento richiederebbe un’operazione di “due diligence” che porterebbe via tempo e che alle condizioni date risulterebbe forse persino impossibile da implementare, in assenza di un esecutivo nel pieno dei poteri.

Quali sarebbero le riforme a cui eventualmente il prossimo governo libanese dovrebbe attenersi per ottenere la ricostruzione del porto? Essenzialmente, risanamento fiscale, ristrutturazione del debito pubblico, liberalizzazione del tasso di cambio e una governance più efficiente. La lira sul mercato nero è crollata del 90% rispetto al tasso ufficiale. L’inflazione a dicembre è salita sopra il 145%, segnando +400% per i generi alimentari. Il paese importa praticamente di tutto dall’estero, anche a seguito della scarsa competitività delle sue imprese con il cambio forte adottato negli ultimi decenni. Prima del Covid, il passivo della bilancia commerciale si attestava a quasi un terzo del PIL.

Al momento, la politica resta bloccata dai veti incrociati tra sciiti, sunniti e minoranza cristiana. Hezbollah, il braccio armato della fazione sciita filo-iraniana, non vuole saperne di richiesta di assistenza al Fondo Monetario Internazionale, sostenendo che ciò implichi l’adozione di politiche di austerità contrarie agli interessi della popolazione. Senonché, l’austerità nel paese si respira severamente da mesi, con il tasso di povertà relativa esploso al 60% e gli stipendi falcidiati dalla corsa sfrenata dei prezzi, a sua volta trainata dal collasso della lira. I paesi donatori, che già da qualche anno si erano impegnati a stanziare una dozzina di miliardi per aiutare Beirut, hanno fatto presente che non sganceranno un euro senza nuovo governo e riforme. Chissà che l’ingresso della Germania nella vicenda non muti l’atteggiamento dell’irresponsabile e inamovibile élite libanese.

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