La maggioranza “giallo-rossa” è diventata una maionese impazzita. Non passa più un solo giorno senza che PD e Movimento 5 Stelle se le diano di santa ragione su questo o quel tema. Si tratti di MES, di taglio dell’IVA, di condono edilizio, di concessioni autostradali o del codice sugli appalti, le divisioni dentro il governo Conte sono diventate laceranti e ormai nessuno nega dal suo interno che così non si possa più andare avanti. I numeri in Parlamento si assottigliano. Al Senato, la maggioranza strettamente politica può contare solamente su 152 seggi, dopo le defezioni dei numerosi grillini espulsi o fuoriusciti, alcuni dei quali passati direttamente all’opposizione, perlopiù in Lega o Forza Italia, mentre altri più prudentemente si sono iscritti al Gruppo Misto.

Compresi i senatori a vita, la maggioranza assoluta richiesta per stare tranquilli sarebbe di 161. E così, Giuseppe Conte resta in balia degli umori di questo o quel gruppetto di senatori pentastellati, alcuni dei quali agguerritamente contrari al MES, oltre che delle tattiche delle opposizioni. Tra queste, Forza Italia si mostra disponibile a puntellare la maggioranza sui temi “caldi” dell’agenda politica, come il terzo scostamento di bilancio in 5 mesi, che il Consiglio dei ministri dovrebbe varare a luglio per 10 miliardi di euro, ma sul quale gravano le divisioni penta-piddine sul MES, la cui attivazione da parte dell’Italia smaltirebbe le emissioni di BTp in autunno.

Numeri traballanti per Conte

Il trend dei numeri si fa inquietante per Conte. L’M5S perde pezzi e le file delle opposizioni, o meglio, della non maggioranza, si ingrossano. Così, diventa sempre più difficile tracciare la rotta e, in effetti, il governo naviga a vista, ricorrendo ad espedienti anche grotteschi, come gli inutili Stati Generali di giugno, per calciare il barattolo e spostare più in là l’appuntamento con la realtà, sperando che nel frattempo accada un qualcosa che faccia guadagnare ulteriore tempo.

Chissà, magari la necessità di un secondo “lockdown” con cui fare sprofondare l’Italia nello stato di emergenza e mettere a tacere le divisioni in ragione del clima di unità nazionale.

Questa strategia ha funzionato tra marzo e maggio, quando l’esecutivo si è giovato della quarantena per risalire nei consensi, data l’assenza di dialettica politica. Il premier è diventato unico soggetto politico e istituzionale a caricarsi sulle spalle il peso della crisi e ha goduto di fiducia diffusa tra gli italiani, comprata a colpi di promesse plurimiliardarie. Adesso, molte di queste non sono state mantenute, a partire dal rilancio tempestivo dell’economia, volendo tralasciare i ritardi imperdonabili nell’erogazione dei bonus alle partite IVA e della cassa integrazione. Fatto sta che le chiacchiere stanno a zero e dopo aver governato a colpi di decreti dalla dubbia legittimità costituzionale (vedi l’ex presidente della Consulta, Sabino Cassese), scavalcando il Parlamento e il confronto politico, i nodi sono arrivati al pettine.

In autunno, le tensioni sociali monteranno. Lo ha ammesso il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, che ha avuto almeno la sincerità di dipingere le cose per come stanno. Non puoi reprimere la rabbia dei lavoratori bloccando i licenziamenti di trimestre in trimestre, né quella delle imprese concedendo loro un contentino a colpi di “clic day”. La mascherina non può essere usata in eterno come bavaglio contro le opposizioni e l’insofferenza non può essere accomunata allo sciacallaggio politico, essendo frutto di un sentimento di incertezza sul futuro e di frustrazione per il presente di milioni e milioni di italiani, trasversalmente alle categorie sociali di appartenenza.

Scenario elezioni anticipate

Per la prima volta dopo diversi mesi, si torna a parlare di elezioni anticipate quale sbocco quasi obbligato o, comunque, credibile alla crisi politica in corso.

Certo, arrivarci non sarà facile, tra regole di distanziamento sociale da rispettare, referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari, ridisegnazione dei collegi e nuova legge elettorale. Se va bene, se ne parlerà nella primavera prossima, a meno che lo sgretolamento dell’esecutivo sia tale da renderle inevitabili anche in questo autunno. E guardate che non solo le opposizioni o il grosso di esse le guarda come un piacevole miraggio. Il PD sa che tener duro da qui ad un anno potrebbe servirgli per eleggere un proprio presidente della Repubblica, ma con questi numeri e queste tensioni con i grillini, lo sgambetto sarebbe concreto e suicida per il Nazareno.

Il partito di Nicola Zingaretti sa, però, che il Quirinale non può bastare per giustificare una permanenza nel governo a ogni costo, specie se si teme che da qui ai prossimi mesi si rischi di finire nel mirino di proteste sociali piuttosto diffuse, da nord a sud. Del resto, l’operazione che fu di Matteo Salvini, ovvero di governare con i grillini per spolparli elettoralmente, al PD non è riuscita, per quanto vada dato atto che i consensi per il centro-sinistra abbiano retto. E Conte, che fino a qualche mese fa per i democratici sembrava essere un asset, adesso si sta rivelando ingombrante, una figura dagli obiettivi velleitari e di cui sbarazzarsi politicamente al più presto. Anche perché da qui a breve, potrebbe essere quella che pagherà più di tutte lo scotto della crisi, gestita male sul piano sanitario e pure peggio dal punto di vista economico. E siamo solo agli inizi.

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