Dieci anni fa, lo spread BTp-Bund decennale si attestava su livelli tripli rispetto a oggi. Il BTp a 10 anni sfiorava il 9%, oggi fa notizia se tocca l’1%. Altri tempi, certo. Eppure, quella crisi del debito sovrano non aveva motivo di esistere, almeno stando ai fondamentali macro. Nel 2011, il debito pubblico italiano era salito al 120% del PIL. E chiudeva con un deficit al 3,9%, a fronte di un saldo primario positivo per 1,2 punti di PIL. La spesa per interessi superava, invece, il 5%.

Oggi, il debito pubblico viaggia al 160%, il deficit dovrebbe esplodere al 12% e il saldo primario sprofondare sotto il -8%. Nel frattempo, però, la spesa per interessi dovrebbe assestarsi in area 3,5%. Praticamente, se ci chiedessero quali dei due stati dovrebbe registrare una crisi del debito sui mercati, risponderemmo senza ombra di dubbio quello con i dati del 2011.

Ma non è così. Sebbene lo spread italiano risulti il più alto nell’Eurozona assieme a quello della Grecia, in valore assoluto rimane assai basso. E dal 2011 di passi in avanti non ne abbiamo compiuti nemmeno sul piano economico. Il PIL da allora è diminuito di oltre 8 punti percentuali. Al netto della pandemia, risulterebbe invariato in termini reali. In pratica, quell’Italia tanto bistrattata da mercati e istituzioni europee una decina di anni fa era persino più in forma di oggi.

Le tappe della crisi del debito

Perché allora gli investitori si accanirono contro i nostri BTp, decretando la crisi del debito italiano? In realtà, il fenomeno riguardò i cosiddetti PIIGS, cioè il Sud Europa più l’Irlanda. Con la nascita dell’euro, i mercati avevano creduto o finto di credere che le frammentazioni finanziarie nazionali fossero state superate. La BCE veniva percepita come un prestatore di ultima istanza, garante per i debiti di tutta l’Eurozona. Ma capirono subito dopo lo scoppio della grana greca che così non fosse.

Ed ecco che iniziarono a bombardare i titoli di stato emessi dai paesi più indebitati.

La BCE, anziché intervenire per rassicurare gli investitori, agì in maniera confusa. In primis, alzando i tassi in estate per la prima volta dopo la crisi finanziaria mondiale. Con ciò segnalò ai mercati che non avrebbe reso espansive le condizioni monetarie nell’area per sostenere le economie più deboli e alle prese con una crisi di fiducia. E se è vero che varò il Securities Markets Program con cui acquistò bond sovrani del Sud Europa per calmierarne i rendimenti, ne sterilizzò i benefici con l’invio all’Italia di una lettera, nella quale si chiedeva l’attuazione di una cinquantina di riforme economiche in tempi molto brevi. Tra questi, temi caldissimi come pensioni, lavoro e Pubblica Amministrazione.

Solo l’arrivo di Mario Draghi cambiò il corso della storia. La svolta sui mercati non fu immediata. Ci vollero diversi mesi e una potente crisi del debito quasi fatale per Italia e Spagna a spingere l’allora governatore a pronunciare il famoso “whatever it takes”. Gli investitori si convinsero che sarebbe stato imprudente scommettere contro la BCE e la speculazione rientrò. Dopodiché vennero i tassi negativi e il “quantitative easing”. Il resto è cronaca. Ma l’Italia non fece praticamente nulla per meritarsi quel sostegno. A parte una riforma delle pensioni “lacrime e sangue”, la spesa pubblica è rimasta inalterata, così come i disavanzi fiscali non sarebbero rientrati senza un abbassamento della spesa per interessi avvenuto grazie esclusivamente alla BCE.

La garanzia Draghi

Ripercorriamo questa storia recente per dirvi che la crisi del debito nel 2011 fu un atto politico, non nel senso di un complotto contro l’allora governo Berlusconi. Essa fu determinata dall’incapacità della BCE di percepire la gravità della situazione e i rischi per la stessa sopravvivenza dell’euro.

A Francoforte, così come a Bruxelles, forse in buona fede pensarono che l’Italia avrebbe avuto bisogno di una sveglia per riformarsi e che l’allarme spread avrebbe messo pressione a Roma per risanare i conti pubblici e rilanciare la crescita. A consuntivo (e non solo in Italia), banchieri centrali e commissari hanno capito che non funziona così.

Con la pandemia, l’accomodamento monetario è stato reso automatico e svincolato da condizioni imposte a questo e quel paese. Ciò ha reso gli stimoli molto efficaci rispetto all’obiettivo di azzerare i costi di finanziamento, ma al contempo anche assuefacenti. L’impulso a fare riforme è venuto del tutto meno, mentre i governi si lanciano in più occasioni in programmi di spesa pubblica dalla dubbia qualità. I fondamentali odierni imporrebbero all’Italia di pagare rendimenti reali nettamente più alti di quelli del 2011, ma così non è. La BCE non è più quella di 10 anni fa, sebbene non possiamo commettere l’errore di immaginare che ci sosterrà eternamente.

La politica monetaria nell’Eurozona si muoverà sempre lungo queste due direttrici: accomodamento massimo fino a quando non diventi incompatibile con la stabilità dei prezzi; salvaguardia dell’euro. Finché il costo di evitare una rovinosa crisi del debito in Italia non supererà il beneficio dell’euro, il soccorso non verrà meno. Per nostra fortuna, l’euro è così fondamentale per l’area, che nessun governatore e politico si spingeranno mai seriamente a minacciarne l’esistenza. Ma esistono soluzioni intermedie, come quella di mettere sotto tutela l’Italia nel caso in cui non fossero più possibili maxi-stimoli monetari. Un commissariamento, insomma. E magari in forma di accesso al MES. Ma con Mario Draghi premier non sembra uno scenario attuale. Adesso, egli costituisce la garanzia per la sostenibilità del debito italiano.

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