Domani prendono il via le votazioni per eleggere il prossimo presidente della Repubblica e successore di Sergio Mattarella. Il mandato dura sette anni. A votare saranno 1.009 cosiddetti “grandi elettori”, vale a dire i 630 deputati, i 321 senatori (compresi i 6 a vita) e i 58 delegati delle Regioni. Questi ultimi spettano nel numero di 3 per ciascuna Regione, 1 per la piccola Valle d’Aosta. I delegati regionali sono eletti da ciascuna assemblea regionale secondo il seguente schema: 2 della maggioranza e 1 in rappresentanza dell’opposizione.

Le votazioni avvengono a scrutinio segreto. Ciascun elettore segnerà il nome del prescelto sulla scheda sotto il catafalco, una costruzione provvisoria che ad ogni elezione del presidente della Repubblica viene montata sotto i banchi della presidenza della Camera, laddove il Parlamento si riunisce in seduta comune. A questo giro, nessuna coalizione dispone della maggioranza assoluta dei seggi per imporre un proprio candidato. Curiosità: in tutte le quattro precedenti tornate nella Seconda Repubblica, il centro-sinistra ha goduto della maggioranza, tant’è che ha fatto eleggere uomini a sé vicini: Carlo Azeglio Ciampi nel 1999, Giorgio Napolitano nel 2006 e nel 2013, Sergio Mattarella nel 2015.

Nei primi tre scrutini, servirà una maggioranza dei due terzi per eleggere il presidente della Repubblica, cioè di 673 grandi elettori. A partire dal quarto scrutinio, il quorum si abbassa alla maggioranza assoluta, cioè a 505 grandi elettori. Il centro-sinistra, inteso come la somma di PD, Movimento 5 Stelle, Italia Viva e Liberi Uguali, può disporre di 451 voti. Il centro-destra, formato da Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Noi con l’Italia, Coraggio Italia e Diventerà Bellissima, di 452. Le formazioni indipendenti, tra cui il numeroso Gruppo Misto (51) arrivano complessivamente a 106 voti e si riveleranno probabilmente determinanti.

Nuovo presidente della Repubblica tra Pnrr e inflazione

In pole position c’è Mario Draghi. Sarebbe la prima volta che un premier in carica sia eletto presidente della Repubblica.

La sua autorevolezza è al contempo punto di forza e di debolezza della candidatura non ufficiale. Da un certo punto di vista, averlo al Colle sarebbe una garanzia per il sistema Paese. L’Italia è caratterizzata da una forte e costante instabilità dei governi, mentre presenta una forte stabilità relativa ai capi dello stato. Pur senza poteri ufficiali, Draghi dal Quirinale riuscirebbe a garantire per i prossimi sette anni l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e terrebbe la barra dritta sulla collocazione dell’Italia in seno alle istituzioni comunitarie.

D’altra parte, senza Draghi al governo si aprirebbe un grosso problema di successione. Tant’è che in queste ore i partiti starebbero più che altro discutendo su chi dovrebbe rimpiazzare il premier con l’elezione di quello attuale a presidente della Repubblica. Il suo carisma tra i politici servirebbe per arrivare a fine legislatura senza fibrillazioni eccessive. Stiamo vivendo una fase peculiare: la variante Omicron dilaga fortunatamente senza pari impennata dei morti, l’economia europea sta riprendendosi dalla pandemia, ma l’inflazione galoppa e il costo delle materie prime è esploso. E lo scenario di un’invasione dell’Ucraina da parte della Russia aumenta la pressione su petrolio e gas.

Lo spread già si fa sentire da settimane e i rendimenti sovrani salgono, scontando sia il “tapering” della BCE, sia la possibile fine del governo Draghi. Tra le figure tecniche che potrebbero sostituire il premier a Palazzo Chigi spiccano i nomi di Daniele Franco, Vittorio Colao e Marta Cartabia, rispettivamente ministro dell’Economia, dell’Innovazione tecnologica e della Giustizia. Sarebbero in grado di guidare una maggioranza così composita in un periodo pre-elettorale, di per sé già teso?

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