E’ crisi del sistema, così l’Italia rivive il 1992 con 25 anni di stagnazione alle spalle

L'Italia si è rivoltata contro la vecchia classe dirigente e di tornare indietro non vorrebbe sentirne parlare. Siamo a un nuovo 1992, frutto di 25 anni di cattivi governi e di stagnazione economica.
7 anni fa
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Non si tratta di una crisi politica, bensì politico-istituzionale, ovvero di sistema. L’Italia è senza un governo nel pieno delle sue funzioni da 3 mesi e quanto accaduto negli ultimi giorni segnala il dramma di un Paese senza bussola, né più punti di riferimento condivisi. I passi falsi commessi dal Quirinale nella gestione del risultato elettorale del 4 marzo scorso rimarcano il collasso della Seconda Repubblica, che altro non è stata se non l’appendice della Prima, pur con volti e sigle diverse.

Per capire cosa sia successo, bisogna andare indietro nel tempo, ma non all’ultimo voto, bensì al 1992. In quell’anno, tra una strage di mafia e l’altra, quasi tutti i partiti politici venivano spazzati via da Tangentopoli con l’inchiesta “Mani Pulite”, che scoprì l’acqua calda: le segreterie incassavano tangenti per finanziarsi. Il PCI, addirittura, prendeva pure soldi dall’ex Unione Sovietica.

Davvero i giudici capirono con decenni di ritardo quello che ogni italiano sapeva già? No, semplicemente in quel maledetto 1992 si posero le basi per colpire la classe politica che aveva guidato il Paese dalla Seconda Guerra Mondiale. Di una Dc non c’era più bisogno impellente, essendosi sgretolato l’impero comunista dell’Europa orientale e la crisi economica iniziava a mordere, mentre il nostro debito pubblico risultava esploso sopra il 110% del pil. Insomma, era il momento di cambiare e i giudici si presero la briga di accelerare il tracollo delle istituzioni, già emerso con le elezioni politiche del 1992, quando un partito anti-sistema come l’allora Lega Nord impennava nei consensi e la Dc scendeva per la prima volta sotto il 30%.

Nacque la stagione dei governi tecnici con il governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, chiamato a guidare un esecutivo di centro-sinistra. L’anno dopo – siamo al 1994 – trionfava un’inedita alleanza di centro-destra, messa su in poche settimane dall’imprenditore televisivo Silvio Berlusconi e che comprendeva la Lega al nord e il Movimento Sociale Italiano al sud, oltre che una Forza Italia d’impronta centrista.

Eresia pura per la vecchia classe dirigente sorta sulle ceneri del fascismo. L’esperimento durò pochi mesi, il tempo che il premier venisse travolto dalle inchieste giudiziarie per presunti rapporti con la mafia e che gli alleati nordisti lo mollassero sull’onda delle proteste di piazza contro il tentativo di riformare le pensioni.

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25 anni inconcludenti di Seconda Repubblica

Da lì in poi, l’area di centro-sinistra si raccoglie attorno all’ex presidente dell’Iri, Romano Prodi, vincendo le elezioni nel 1996 e traghettando l’Italia nell’euro. La Seconda Repubblica procede così, di cambio in cambio di colore di governo a ogni tornata elettorale, senza che l’economia italiana registri alcun miglioramento, entrando in una stagnazione praticamente perenne. Crescita azzerata, debito in calo di poco e sempre sopra il 100% del pil e disoccupazione relativamente alta, specie al sud e tra i giovani. Le famose riforme che tutti promettono per rilanciare l’economia restano lettera morta. Il centro-sinistra, in particolare, lotta contro la legge Biagi del 2003, tacciandola di favorire la precarietà del lavoro e si oppone strenuamente anche a qualsiasi contenimento della spesa previdenziale, quando con la riforma Maroni il governo Berlusconi nel 2004 cercò di porre un’argine alle pensioni di anzianità.

Si va avanti così, a colpi di insulti e chiacchiere, nonché di avvisi di garanzia a carico di Berlusconi, ai quali vengono contrapposte leggi ad personam quale arma di difesa contro un percepito accanimento giudiziario. L’Italia arriva al 2008, anno di esplosione della crisi finanziaria mondiale, mezza stremata, con un’economia al palo e imprese già in affanno per il vento della globalizzazione.

Il resto è dura cronaca: la crisi dello spread, la nascita del governo Monti, la vittoria del Movimento 5 Stelle nel 2013 come primo partito, replicata con numeri ben più solidi a marzo. Nel frattempo, le due principali coalizioni della Seconda Repubblica si sfarinano. Non solo sembrano lontani i consensi di un tempo, ma PD e Forza Italia, partiti-perno del sistema politico fino a pochi mesi fa, collassano ad appena un terzo dei voti in tutto, quando 10 anni fa insieme ottennero il 70% (PD-PDL).

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La rivolta contro il sistema… e l’euro

Per la prima volta in Italia, la maggioranza assoluta in Parlamento la ottengono formazioni euro-scettiche e non centriste. E’ la fine di un’epoca, specchio di un Paese stremato da un quarto di secolo di crisi senza soluzione e da assenza totale di credibilità e di risposte da parte delle classi dirigenti. La rivolta è indirizzata a tutto il sistema che ci governa, non solo politico. L’establishment – partiti, istituzioni, sindacati, banchieri, giornali, grandi industriali e chiunque venga associato al vecchio sistema – ne esce travolto e continua a mostrarsi incapace di cogliere le ragioni della propria sconfitta, chiuso a riccio nel disperato tentativo di conservare parte di quelle rendite di posizione di cui ha beneficiato ad oggi con equilibri di sistema venuti giù.

Uscire dall’euro sarebbe certamente un rischio enorme per i risparmi degli italiani e per la solidità della nostra economia nei prossimi anni. Se col senno di poi potremmo affermare che la moneta unica sia stata un errore, tornare alla lira significherebbe, però, mettere in conto di sacrificare almeno un’altra generazione di italiani, dopo che già una è andata “bruciata” in 25 anni di crisi infinita. C’è un baco in questo ragionamento: tutto vero, ma milioni di persone, specie al sud e, soprattutto, giovani non hanno niente da perdere.

Risparmi azzerati o posto di lavoro a rischio con la lira? Ad averceli, risponderebbero in tanti. Quando la condizione di partenza è costituita da precarietà lavorativa, assenza di prospettive e un conto in banca a saldo zero, nonostante una laurea e magari tanti sacrifici compiuti per sbarcare il lunario, lira o euro non fa differenza. Di più: molti elettori aspirano ad azzerare tutto, a “scassare il sistema”, caratterizzato da nepotismo, clientelismo, corruzione, familismo, inefficienze, servizi carenti, alte tasse e politici senza idee e senza ritegno.

C’entra tutto ciò con l’euro? Forse, niente. Tuttavia, gran parte degli italiani associa ormai il vecchio sistema politico con la perdita della dignità nazionale e la moneta unica, la cui introduzione ha coinciso con il declino economico nazionale. L’euro in sé non sarebbe nemmeno il vero obiettivo di milioni di elettori leghisti e grillini, ma viene detestato spesso per il solo fatto che sia difeso aprioristicamente da un sistema malato, ottuso e autoreferenziale come quello politico e istituzionale di questi anni. Del resto, difficile inveire contro il pericolo populista, se in 25 anni di alternanza, centro-destra e centro-sinistra tradizionali hanno lasciato macerie in eredità. Nessuno crede più alle promesse di una “rivoluzione liberale” di Berlusconi o a quelle all’insegna dell’equità sociale e dell’ancoraggio ai valori europei del PD, che si sono rivelate espressioni vuote e prive di risultati concreti. In quest’ottica, le ultime mosse del presidente Sergio Mattarella per formare un governo “di tregua” non vengono più tollerate dai cittadini. Legittime o meno, esse appaiono un tentativo maldestro di tenere in vita il decaduto “ancien régime” e di privare la maggioranza della loro voce a Roma e a Bruxelles. Sono saltati gli schemi e le parole d’ordine tradizionali. L’Italia vive il suo nuovo 1992, ma con alle spalle tanta stanchezza e disillusione. E nemmeno è così convinta che un Matteo Salvini o un Luigi Di Maio siano migliori dei loro predecessori. L’importante che escano di scena i pessimi protagonisti degli ultimi decenni.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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