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Crisi della moda europea, parla Gianluca Tacchella (Carrera)
Crisi della moda europea, parla Gianluca Tacchella (Carrera) © Licenza Creative Commons

Crisi della moda? Prezzi folli e consumatore pollo da spennare. Parla Gianluca Tacchella (Carrera)

Il CEO di Carrera, Gianluca Tacchella, parla della crisi della moda e punta il dito contro pratiche di mercato fallimentari.
3 settimane fa
8 minuti di lettura

Abbiamo realizzato un’interessante intervista sulla crisi della moda in Europa con Gianluca Tacchella, amministratore delegato di Carrera e figlio di Tito, uno dei tre fratelli fondatori della nota società di abbigliamento.

 

I ministri economici dell’Ecofin nei giorni scorsi hanno deliberato quella che è stata ribattezzata la “tassa Shein”, cioè la fine dell’esenzione dai dazi sui piccoli pacchi provenienti quasi sempre dalla Cina. Tra i 4,6 miliardi arrivati nell’Unione Europea l’anno scorso, moltissimi contenevano prodotti di abbigliamento e accessori. Crede che possa servire per reagire alla crisi del settore tessile in Europa?

Il successo clamoroso dei portali cinesi, a mio avviso, è direttamente proporzionale al fallimento clamoroso della politica economica degli ultimi 10 anni e della politica di marketing sbagliata delle aziende.

I portali hanno avuto questo clamoroso successo non perché qualche cinese sia venuto a casa ad obbligare i consumatori ad acquistare, ma perché liberamente hanno votato questi portali con la loro carta di credito.

Se dividiamo il numero dei pacchi per la popolazione europea, ci accorgiamo che siamo oltre 12 pacchi per persona, inclusi neonati e anziani ammalati. Un numero impressionante che non è giustificabile semplicemente con l’offerta a basso prezzo dei portali, ma con qualcosa di molto più profondo.

Dal mio punto di vista, dopo il COVID, abbiamo completamente sbagliato politica industriale e politica di posizionamento. In economia ci hanno sempre insegnato che a domanda decrescente i prezzi diminuiscono. Dopo il COVID, a domanda decrescente, i prezzi sono raddoppiati o triplicati: i brand si sono slegati dalla realtà perché, diminuendo i volumi, hanno immaginato di risolvere il problema alzando i prezzi.

Il problema è che hanno fatto questa politica senza fare i conti col consumatore, che è completamente diverso rispetto al passato, e quindi il consumatore ha punito scegliendo piattaforme diverse molto più credibili come rapporto qualità-prezzo.

Non è ammissibile e non è più accettabile che una T-shirt 100% cotone che costa per tutto il mondo meno di tre dollari possa essere venduta a 100 €, lo stesso si può dire per una camicia, una felpa o un jeans. Abbiamo perso completamente credibilità, quindi non è un fatto di filiera: è un fatto di strategia sbagliata.

In aggiunta a questo, il colpo di grazia l’hanno dato le marche del lusso che hanno ulteriormente affossato la credibilità del settore tessile, scoprendo una cosa che si sapeva benissimo: che loro, per avere il made in Italy, si avvalgono di filiere che non hanno niente di italiano. I portali cinesi non danno niente di diverso da quello che diamo noi: è semplicemente una protesta clamorosa.

Tutta questa lunga premessa per dire che i due euro saranno inutili, ma purtroppo li ho già visti nel bilancio dello Stato italiano come entrata pari a 900 milioni di euro. Quindi, in realtà, non è una penalizzazione dei portali cinesi: è semplicemente una nuova sovratassa presso il consumatore italiano per chiudere altri buchi.

Perché i nostri ministri non dicono che questa manovra non va a favore del settore tessile, ma a chiudere i buchi di bilancio? È semplicemente una nuova tassa chiamata in un altro modo.

Attenzione: come il doping, la Cina è avanti due anni. A breve avremo molti meno pacchi spediti dalla Cina perché stanno già facendo le logistiche qua e quindi non ci sarà neanche questa sovratassa da applicare. In aggiunta, qualcuno si è fatto una domanda: cosa significa far gestire alle dogane 4,5 miliardi di pratiche da due euro? Una follia.

In questi anni si è fatto un gran discutere di “fast fashion”, cioè dell’abitudine dei consumatori a comprare merci con sempre maggiore frequenza, pur di basso valore. Non crede che alla base vi sia il basso potere di acquisto delle famiglie?

Sì, il fast fashion è legato molto al potere di acquisto delle famiglie, ma è anche legato alle politiche di sovrapprezzo di quasi tutti i brand. Se guardo Carrera, negli ultimi 10 anni ha avuto solamente crescita, perché noi abbiamo una filiera del rispetto dove cerchiamo di dare un prodotto fatto molto bene, che rispetta chi lo produce, ma che rispetta anche il consumatore con un prezzo giusto. In cambio di questa politica aziendale, abbiamo ricevuto una grandissima fedeltà. Certo, bisogna pensare che anche l’azienda non è un bancomat da spolpare e che quando c’è da soffrire, c’è da soffrire.

Ci sono stati errori in questi decenni, commessi dalle imprese del settore tessile, o la crisi è addebitabile esclusivamente a fattori macroeconomici?

A mio avviso ci sono stati degli errori molto gravi. Il settore della moda è un settore trainante ma principalmente legato a una narrazione completamente errata. Si parla che il settore moda fattura oltre 100 miliardi, ma non c’è capacità produttiva italiana per quella cifra di serie con lavoratori giustamente pagati. La forza del tessile italiano si applica purtroppo su azioni poco trasparenti come produzioni fatte all’estero alle quali viene cambiata l’etichetta con una piccola operazione di maquillage.

Carrera negli anni ’90 era uno dei più grandi produttori di abbigliamento in Italia con numerosi stabilimenti. Carrera ha dovuto chiudere tutti gli stabilimenti, non solo per il costo del lavoro, ma perché non c’era più un ricambio generazionale.

Le figlie delle nostre sarte non andavano più davanti alla macchina da cucire, perché avevano studiato.

Oggi, trent’anni dopo, stiamo ancora cercando di parlare di manifattura, con tutti i ragazzi che hanno studiato. Se non era possibile trent’anni fa, figuriamoci ora. Abbiamo creato trent’anni di illusioni e ci siamo anche autoconvinti, e adesso i nodi vengono al pettine.

Aziende vecchie, tecnologie vecchie: non siamo più competitivi. Bisogna avere il coraggio di dire che il settore tessile non è più adatto all’Italia a livello di manifattura, ma questo non significa che non ci possano essere aziende della moda forti. Pensiamo ai francesi: non hanno produzione, ma dominano il mondo con i loro brand.

Persino il mercato del lusso scricchiola in borsa su risultati trimestrali inferiori alle aspettative. Ci sono stati svariati scandali, anche recentissimi, legati allo sfruttamento della manodopera lungo la filiera e all’impatto ambientale. Il consumatore si chiede spesso se abbia senso pagare tanto per un prodotto “di qualità” fabbricato in Cina o Vietnam. Qual è la sua opinione al riguardo?

Le aziende del lusso, che dovrebbero essere l’esempio di filiera sostenibile, hanno invece dato un colpo mortale alla credibilità del settore. Perché se un marchio di lusso ha bisogno di usare filiere al limite della legalità per stare sul mercato, l’idea che si fa il consumatore rispetto agli altri brand non del lusso è molto negativa.

Siamo stati molto danneggiati come immagine da questi brand. Anche loro dovranno fare i conti con il fatto che l’Italia non è un paese adatto alla produzione, salvo casi molto limitati, e che dovranno dire al consumatore che il prodotto è stato fatto all’estero, come stanno già facendo. Il consumatore non può avere tutte le informazioni per decidere bene, ma è impossibile pensare di fare aziende da miliardi di euro di fatturato con le sarte e con la manifattura artigianale. Non scherziamo per favore. Tra l’altro, il lusso negli ultimi anni ha fatto un’operazione che gli sta ritornando contro: produrre prodotti banali a prezzi folli. Questo ha permesso al lusso di fare volumi, fatturati, utili, ma hanno perso l’esclusività e il consumatore si è stufato di sovrapagare prodotti banali.

 

Per te per il Made in Italy. I dazi americani rappresentano una minaccia esistenziale per aziende italiane già da anni sotto stress. I primissimi dati della bilancia commerciale per il momento smentirebbero il pessimismo. Pensa che riusciremo a superare questo ostacolo? Se sì, come?

Per le aziende che esportano in America dazi e cambio sono sicuramente due ostacoli importanti, ma credo che oggi, in tutto il mondo, grazie al successo dei portali cinesi, bisogna cominciare a lavorare su un prodotto che rispetta la qualità ma che rispetta anche il consumatore con il prezzo.

Dobbiamo avere il coraggio di ammettere che il sistema moda Italia è diverso da quello che ci dipingono e che la manifattura non appartiene più a questo paese come non appartiene più da trent’anni. Ma questo non è un male: semplicemente dobbiamo difendere le aziende italiane, non le fabbriche, i marchi, il design. Tutti i nostri ragazzi studiano, nessuno va davanti alla macchina da cucire. La manifattura della moda deve essere fatta nei paesi ad alta intensità di manodopera e a basso costo e manodopera non educata. Quando inizieremo ad accettare questo e avremo il coraggio di essere trasparenti con il consumatore, inizierà una nuova era per la moda italiana: un’era fatta di credibilità e rispetto.

Il timore di molti è che la Cina dirotti sul mercato europeo le sue mancate esportazioni negli Stati Uniti. Come potremmo evitare un simile scenario con conseguente collasso della produzione interna?

Purtroppo noi non possiamo controllare la Cina. Possiamo solo analizzare perché il consumatore, in massa e in pochissimo tempo, sta lasciando i nostri brand, passando a quelli cinesi. Solo facendo questa analisi troveremo I rimedi. Non certamente attaccando I portali o mettendo una tassa al consumatore. Semplicemente inutile. NB: La maggior parte dei brand consegna prodotti fatti nelle stesse fabbriche di quelli venduti da Shein e Temu ad un prezzo totalmente diverso. È chiaro che prima o dopo il consumatore se ne accorge e ti abbandona.


Da imprenditore, tra l’altro appartenente a una notissima famiglia di imprenditori, quali sono i principali problemi che deve fronteggiare per produrre in Italia?

Noi non produciamo in Italia da trent’anni, perché come ripeto l’Italia non è più un paese adatto per la manifattura perché manca la manodopera a basso costo. Chi ha studiato non va a lavorare davanti ad una macchina da cucire.

Noi non abbiamo mai avuto paura di scrivere Made in Tajikistan o Made in Pakistan o Made in Cina perché abbiamo sempre avuto una mission molto chiara: dare prodotti belli, fatti bene, fatti in modo responsabile, ad un prezzo giusto. Con una filera trasparente.

Se Carrera è riuscita ad arrivare a sessant’anni di storia ancora come leader di mercato dei jeans da uomo, il merito in parte è di Carrera ma gran parte è del consumatore che trova in questa azienda un prodotto con cui si identifica e si gratifica perché si sente ripettato.

Che ruolo ha il rispetto del consumatore nelle strategie dei brand di moda o conta solo il posizionamento e l’immagine?

Credo di aver già parzialmente risposto sopra. Negli ultimi anni le leve di marketing sono state posizionamento, branding, margine. Non ho mai sentito che il consumatore facesse parte della strategia: ho sempre avuto la percezione che il consumatore fosse qualcosa di estraneo……fosse il pollo da spellare, il bancomat da cui prelevare.

Questo andava bene fintanto che non sono arrivati i portali cinesi che hanno cambiato tutte le logiche, non portando prodotti nuovi ma semplicemente portando il prodotto al prezzo giusto.

I portali cinesi si sono inseriti in questa mancanza di rispetto, hanno avuto un successo clamoroso e hanno cambiato le regole del gioco. Noi cosa facciamo? Siccome non sappiamo combatterli, diciamo che fanno lavorare i bambini, che sfruttano le persone, eccetera eccetera.
Sarà anche vero, ma 4,5 miliardi di pacchi dicono un’altra cosa.

C’è un altro aspetto che tocca da vicino le aziende del tessile e altre aziende: noi siamo sottoposti ad una burocrazia pesantissima per fare pratiche di sostenibilità che in Italia hanno poco senso perché quasi tutta la produzione avviene in Asia, dove non c’è tutta questa regolamentazione, e i nostri concorrenti arrivano nel mercato senza vincoli.

Allora la soluzione più facile potrebbe essere fare un dazio importante ai prodotti cinesi, ma questo non si può fare perché andrebbe a k.o. l’intera industria italiana che dipende dalla componentistica cinese.

Ci siamo cacciati in una bellissima trappola perché i portali fanno una concorrenza invisibile: non sappiamo esattamente cosa sta arrivando. I negozi vedono che le persone entrano sempre meno e pensano che comprino meno, in realtà le persone comprano in modo diverso che non è seguibile dai dati statistici.

Il claim di Temu è incredibile: ‘Fai la spesa come un miliardario’. La bravura di questi portali è stata di mettere in moto i poveri, i quali possono acquistare sentendosi dei ricchi. I poveri – e ci metto dentro le famiglie medie italiane – grazie a questi portali comprano come se non ci fosse un domani, fregandosene di tutti i concetti di sostenibilità. Ma una famiglia che ha tre figli da vestire non può spendere 200 € per tre camicie o tre jeans: è finita.

Conclusione

Il futuro del tessile e della moda italiana richiede coraggio e trasparenza. Non possiamo più fingere che la manifattura appartenga all’Italia: dobbiamo puntare su design, brand e credibilità, offrendo prodotti di qualità a prezzi giusti. Solo così potremo affrontare la concorrenza globale e riconquistare la fiducia dei consumatori.

Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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