Il sistema pensionistico italiano è ancora saldamente legato alla legge Fornero. Per andare in pensione si seguono tuttora le regole della riforma introdotta da un vecchio governo Monti, quando Elsa Fornero era Ministro del governo tecnico nato dalla crisi dell’esecutivo Berlusconi.
Era il 2012 quando entrò in vigore la legge Fornero, che tutti gli esecutivi successivi hanno tentato, invano, di correggere, superare o eliminare. Tuttavia, da una lettura attenta dell’attuale normativa, emerge chiaramente una mancanza di flessibilità, oltre a requisiti spesso eccessivamente stringenti. È per questo che oggi si torna a parlare di correttivi, volti proprio a dare al sistema una maggiore flessibilità in uscita.
La definizione di flessibilità per le pensioni
Innanzitutto, occorre chiarire cosa si intende per flessibilità applicata alle pensioni. In linea generale, significa introdurre requisiti specifici, come quote da raggiungere, lasciando però al lavoratore una certa libertà nella loro composizione. In sostanza, si definisce una quota di uscita basata sulla somma tra età anagrafica e contributi versati.
Occorre poi garantire al contribuente la massima libertà possibile nel bilanciare questi due elementi, aumentando ad esempio l’età a discapito dei contributi o viceversa. Un esempio in netto contrasto con questa logica è la Quota 103: una misura che prevede una soglia fissa di 41 anni di contributi e un’età minima di 62 anni, offrendo così zero flessibilità. Infatti, chi ha 61 anni e 42 anni di versamenti non può accedere alla pensione, nonostante il totale sia comunque 103.
Cosa significa flessibilità sulle pensioni? Ecco la vera riforma che cancella la legge Fornero
L’evoluzione del sistema pensionistico italiano ha prodotto nel tempo diverse misure cosiddette “per quotisti”: prima la Quota 96, poi la Quota 100, Quota 102, Quota 103 e, per i precoci, la Quota 41.
Tuttavia, queste misure hanno in comune solo il nome, senza introdurre una reale flessibilità.
Infatti, si tratta sempre di strumenti caratterizzati da rigidi paletti anagrafici e contributivi. L’idea di una misura pura per quotisti dovrebbe prevedere il raggiungimento di una quota, libera però da soglie fisse. Un’ipotesi del genere, pur affascinante, difficilmente vedrà la luce, in quanto sarebbe eccessivamente onerosa per le casse dello Stato. Se già Quota 100 risultava costosa, pur con combinazioni limitate, figuriamoci una misura ancora più libera e flessibile.
Età pensionabile in aumento, la soluzione è necessaria però
La realtà è che l’innalzamento dell’età pensionabile e di altri requisiti rappresenta oggi una necessità per mantenere l’equilibrio dei conti pubblici in materia previdenziale. Questo è sempre stato uno degli ostacoli principali a qualsiasi riforma strutturale del sistema pensionistico.
Dopo la riforma Fornero, sono nate solo misure tampone, che hanno offerto soluzioni temporanee ad alcune categorie, senza mai sostituire profondamente le attuali regole. Queste misure sono state spesso aspramente criticate, anche dai sindacati.
Sindacati che da sempre chiedono maggiore flessibilità. Negli ultimi giorni, ad esempio, anche la CISL è tornata a sollecitare l’apertura di un tavolo con il governo, per rispondere concretamente alle esigenze di quei lavoratori penalizzati da normative troppo rigide.
Flessibilità con premi e penalizzazioni alternate, ecco come funzionerebbero le pensioni
Ma cosa chiedono i sindacati oggi, e in particolare la CISL? In sostanza, la richiesta è sempre la stessa: una maggiore flessibilità in uscita, con la possibilità di accedere alla pensione già a 62 anni, senza gravi penalizzazioni.
Secondo molti lettori, una misura ideale potrebbe prevedere 30/35 anni di contributi e 62 anni di età, con un assegno leggermente ridotto per chi sceglie di uscire prima dal mondo del lavoro. D’altronde, uscire prima è già oggi penalizzante, qualunque sia la misura adottata, a causa dei coefficienti di trasformazione che riducono l’importo dell’assegno.
Tuttavia, ci sarebbero modalità per rendere più sostenibile una simile proposta. Ad esempio, si potrebbe introdurre una penalizzazione minima e proporzionale agli anni di anticipo, come l’1% per ogni anno, evitando di “distruggere” economicamente l’assegno.
In parallelo, si potrebbe incentivare chi resta al lavoro più a lungo, con premi o bonus, come avviene oggi con il bonus Maroni o lo sgravio contributivo che aumenta lo stipendio per chi posticipa l’uscita. Un sistema ibrido, fatto di penalizzazioni moderate e premi, garantirebbe una vera flessibilità, offrendo al lavoratore la possibilità di scegliere consapevolmente, e al tempo stesso contribuendo a contenere i costi per lo Stato.