Esattamente 40 anni fa veniva siglato il famigerato Accordo di Plaza a New York. L’allora segretario al Tesoro, James Baker, figura di spicco nella seconda amministrazione Reagan, aveva radunato i suoi cinque principali colleghi, in rappresentanza delle rispettive economie: Canada, Regno Unito, Francia, Germania e Giappone. Obiettivo: svalutazione del dollaro concordata. L’Italia non era presente, semplicemente perché la lira era una nave in continua tempesta e agli Stati Uniti non serviva di certo guadagnare competitività a spese della nostra economia.
Accordo di Plaza ai danni del Giappone
L’Accordo di Plaza si chiamò così dal nome dell’albergo in cui si tenne la riunione.
Per un gioco del destino, negli anni seguenti la catena degli Hotel Plaza fu posseduta da Donald Trump. Se ne può avere conferma anche grazie a un cameo del tycoon in “Mamma ho riperso l’aereo: mi sono smarrito a New York”.
A seguito di quel patto, il dollaro effettivamente si deprezzò sui mercati valutari, pur non con tutte le divise. Ad esempio, perse oltre i due terzi contro lo yen giapponese, mentre recuperò oltre l’80% in cinque anni contro il marco tedesco. L’obiettivo di Washington fu di recuperare competitività proprio contro il Giappone, che il presidente Ronald Reagan in quegli anni accusò di dumping. Nel mirino finì il comparto auto. Il governo americano minacciò un tetto alle importazioni e così Tokyo si decise a svalutare lo yen per permettere alle imprese americane di rifiatare. Se la cavò con i dazi.
Dollaro resta super, Cina nuova minaccia agli USA
Sono passati quattro decenni dall’Accordo di Plaza e la situazione è rimasta, in un certo senso, abbastanza simile. Il dollaro è ancora oggi la valuta di riferimento globale. La sua forza frena le esportazioni americane e semina malcontento tra le imprese e i lavoratori. Allo stesso tempo, indebolire la divisa americana sembra non solo un’operazione poco saggia, ma anche complicata.
Il mondo non è più quello degli anni Ottanta reaganiani. Al Giappone si è sostituita la Cina come minaccia principale alla manifattura americana, ma è una potenza apertamente ostile agli USA e per questo poco disposta a collaborare.
I dazi di Trump annunciati ad aprile e rivisti in estate probabilmente non funzioneranno granché. Avranno l’effetto certo di far salire il costo della vita per i consumatori americani. Il dollaro si è deprezzato in doppia cifra da inizio anno contro le principali valute mondiali. Questo è apparentemente un bene per le imprese esportatrici, ma d’altra parte acuisce il rischio d’inflazione.
Problemi insoluti negli USA dopo Reagan
Dall’Accordo di Plaza in avanti gli Stati Uniti non hanno risolto i loro problemi di competitività, né affrontato in maniera sistematica la necessità di perseguirla in coerenza con il loro ruolo globale. Continuano ad accumulare deficit commerciali e fiscali senza soluzione di continuità. Hanno nascosto per decenni la polvere sotto il tappeto con i surplus delle partite correnti. In parole povere, beneficiano degli afflussi di capitali, che consentono loro di finanziare le importazioni senza incorrere in un qualche deprezzamento del cambio.
L’eccesso di debiti e la fuga della manifattura hanno portato a un clima politico e sociale poco sostenibile. Trump immagina di poter replicare l’Accordo di Plaza, convocando i principali banchieri centrali del pianeta e intimando loro di acquistare Treasury a lunghissima scadenza (100 anni?) e a tassi infimi. Nel caso contrario, giù con dazi e altre sanzioni. Non è che così che funziona l’economia, non quando ci si approccia al resto del mondo e per quanto grande sia la superpotenza. Si parla da tempo di “dedollarizzazione“ come reazione di gran parte del mondo contro il dominio del biglietto verde. Ad oggi, più chiacchiere che fatti. I numeri raccontano tutta un’altra storia.
Accordo di Plaza falsa soluzione
In fondo, stiamo pagando la mancata soluzione di 40 anni fa. All’escamotage non seguì una politica coerente per rilanciare il Made in USA. Nel 1991 cadeva l’Unione Sovietica e a Washington si convinsero non solo di avere vinto la Guerra Fredda, ma s’illusero anche di avere risolto ogni magagna venuta allo scoperto nei 20 anni precedenti. I nodi sono tornati al pettine. Le leggi dell’economia valgono anche per i grandi della Terra. Con un po’ di ritardo, ma arrivano inesorabili lo stesso.
giuseppe.timpone@investireoggi.it

