Con sentenza del 28 luglio 2025 la Corte Costituzionale dichiara illegittimo l’art.13, comma 1 del decreto legge n.66 del 2014 con cui fu introdotto il tetto agli stipendi pubblici di 240.000 euro lordi all’anno. I giudici della Consulta hanno rilevato che tale limitazione era la conseguenza dello stato straordinario di crisi finanziaria in cui versava l’Italia all’epoca. Ora che le condizioni dei conti pubblici sono nettamente migliorate, eccepiscono che non possa più valere il limite fisso previsto al tempo.
Tetto stipendi pubblici da Monti a Renzi
La sentenza non comporta la bocciatura del tetto agli stipendi pubblici in sé, tant’è che si legge che il presidente del consiglio, ove lo volesse, potrebbe emanare un nuovo decreto per reintrodurlo con riferimento allo stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione.
Gli stipendi arretrati ridotti fino ad oggi, tuttavia, non vanno restituiti. In altre parole, la sentenza non ha effetti retroattivi.
Tutto iniziò con il governo Monti, che a tal proposito emanò il decreto legge n.201 del 2011 con la fissazione del tetto agli stipendi pubblici legato proprio allo stipendio del primo presidente della Cassazione. Quattro anni più tardi, il governo Renzi decise di introdurre un limite fisso di 240.000 euro, pari a 20.000 euro mensili (tredicesima mensilità inclusa). Coloro che, tra magistrati e dirigenti pubblici, percepivano somme più alte, subirono una decurtazione.
Dossier in mano a Meloni
Dunque, con la sentenza di ieri si torna alla previsione del 2011. Allo stato attuale, il primo presidente della Cassazione percepisce un emolumento di 241.080 euro, praticamente appena sopra il limite finora vigente. Gode anche di un’indennità di rappresentanza di 72.000 euro per un lordo complessivo di 313.080 euro. Il dossier passa nelle mani della premier Giorgia Meloni, che può accogliere l’invito della Consulta e ripristinare il tetto agli stipendi pubblici.
Se parametrato allo stipendio del primo presidente della Cassazione, non cambierebbe al momento sostanzialmente nulla.
Pubblica Amministrazione senza meritocrazia e con risultati scarsi
Approfittando della sentenza, però, la politica può cadere nella tentazione bipartisan di favorire quella fascia di boiardi di stato contigua ad essa. Ciò premesso, il discorso è un po’ più complesso. Il tetto agli stipendi pubblici resta molto popolare tra gli italiani, i quali avvertono scarse meritocrazia e produttività nella Pubblica Amministrazione. Poiché i dirigenti sono spesso lì per questioni di amicizie e non per merito e poiché non rendono, ma anzi si rivelano inefficienti, meglio che prendano il meno possibile.
Se affrontassimo il problema con serietà, rimuoveremmo il tetto agli stipendi pubblici e fisseremmo regole differenti per stimolare l’efficienza. Ci proviamo da diversi decenni senza risultati. E il problema più che politico, resta culturale. Gli italiani non credono nella PA e la considerano una mangiatoia a tutti i livelli. Un ufficio di collocamento per tirare a campare o fare carriera senza dimostrare nulla. I nostri vicini francesi hanno tutt’altro atteggiamento. Da inventori della “burocrazia”, vivono gli uffici pubblici con estremo rispetto e senso dell’onore.
Per quanto pletorica sia anche in Francia la PA, essa si distingue per efficienza ed efficacia.
Tetto stipendi pubblici tra opportunità e rischi
Il tetto agli stipendi pubblici ha anche creato qualche problema nell’attirare risorse valide. Anche perché nell’ultimo decennio il limite dei 240.000 euro ha perso il 20% a causa dell’inflazione. Pensate agli effetti in RAI. Dirigenti e conduttori non possono superare tale cifra, che ai comuni mortali può apparire elevata, ma nel mondo dello spettacolo è bassa. Il confronto con le reti privati non regge. Gli stipendi milionari di Cologno Monzese sono lontani e il caso Amadeus dimostra che persino reti minori riescono a spuntarla sugli ingaggi, grazie ad offerte nettamente superiori.
Cosa fare? Visto l’andazzo, la rimozione del tetto agli stipendi pubblici rischia di trasformarsi in un tana libera tutti. I CDA delle società partecipate pullulano di “trombados”, politici rimasti fuori dal Parlamento, che non attendono altro che di percepire di più. Più in generale, è l’assenza di commisurazione degli emolumenti ai risultati a preoccupare. Ecco il motivo per cui è probabile che la premier risponderà affermativamente all’invito della Consulta. Ci sono equilibri fiscali da tutelare. Per quanto non siano gli stipendi dei dirigenti pubblici a poterli minacciare, il cittadino guarda e giudica. Nessun accetterebbe alcun sacrificio se i portafogli dei soliti noti ingrassassero.
giuseppe.timpone@investireoggi.it