Ci risiamo, perché torna in auge la rivalutazione delle pensioni che il governo Meloni ha deciso di applicare in relazione al tasso di inflazione per le annualità 2023 e 2024. Nonostante il precedente verdetto della Consulta. Si tratta di aumenti a fasce non progressive, che soprattutto per i pensionati con trattamenti più alti hanno significato forti tagli sulla rivalutazione. Lo scorso anno, un ex dipendente pubblico — che, anche a nome di altri colleghi, si è visto applicare una perequazione notevolmente ridotta — aveva deciso di intraprendere la via del ricorso, contestando la presunta incostituzionalità dei provvedimenti. La questione era arrivata davanti alla Consulta.
Alla fine, la Corte Costituzionale aveva stabilito che non c’era nulla di irregolare né contrario alla Costituzione nel piccolo sacrificio richiesto ai pensionati titolari di trattamenti superiori a 2.400 euro al mese.
Adesso, però, arriva un nuovo ricorso, sempre incentrato sulla presunta incostituzionalità. Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta e cosa è chiesto ai giudici costituzionalisti.
Pensioni: i pensionati vanno rimborsati? Si torna dalla Consulta per i mancati aumenti
A prescindere dal fatto che l’inflazione nel 2024 sia stata abbastanza contenuta (0,8% previsionale e 1% definitivo) rispetto ai tassi ben più elevati del 2022 (8,1%) e del 2023 (5,4%), a gennaio le pensioni sono state rivalutate con un meccanismo meno oppressivo rispetto a quello adottato nel biennio precedente.
Nel dettaglio, a gennaio il governo Meloni ha applicato le seguenti fasce:
- 100% di rivalutazione rispetto al tasso di inflazione per i trattamenti fino a 4 volte il minimo;
- 90% per la parte di trattamento sopra 4 e fino a 5 volte il minimo;
- 75% per la parte di trattamento oltre 5 volte il minimo.
Cosa significa concretamente? Che le pensioni fino a 4 volte il trattamento minimo (circa 2.400 euro al mese) sono aumentate dello 0,8%, essendo rivalutate integralmente rispetto all’inflazione.
Una pensione più elevata, invece, è aumentata dello 0,8% solo sui primi 2.400 euro, dello 0,72% sulla parte compresa tra 2.400 e circa 3.000 euro (5 volte il minimo) e dello 0,60% sulla parte eccedente.
Ecco perché la rivalutazione delle pensioni nel biennio 2022-2023 ha fatto scalpore
Le pensioni più alte hanno subito piccoli tagli anche nel 2024. Ma nulla a che vedere con le penalizzazioni ben più consistenti previste nel biennio 2022-2023. È proprio quel meccanismo che aveva generato il ricorso bocciato dalla Consulta e che ora torna nuovamente all’attenzione dei giudici.
Nel biennio 2022-2023, infatti, le fasce di rivalutazione erano così articolate:
- 100% per i trattamenti fino a 4 volte il minimo;
- 85% per quelli sopra 4 e fino a 5 volte il minimo;
- 54% per quelli oltre 5 e fino a 6 volte il minimo;
- 47% per quelli sopra 6 e fino a 8 volte il minimo;
- 37% per quelli oltre 8 e fino a 10 volte il minimo;
- 32% per quelli sopra 10 volte il minimo (percentuale poi scesa al 22% nel 2024).
Il punto critico è che non si è applicata alcuna progressività, ma le aliquote sono state applicate sull’intero importo della pensione, anziché solo sulla parte eccedente, come accade normalmente con gli scaglioni fiscali.
Ed è proprio questa la questione centrale che ha portato — e probabilmente porterà ancora — la vicenda davanti alla Consulta.
Ecco il contenuto del nuovo ricorso alla Corte Costituzionale
Questa volta, come riporta anche l’Agenzia di Stampa Ansa, è stato il Tribunale di Trento a rinviare alla Corte Costituzionale la valutazione sulla legittimità costituzionale della rivalutazione delle pensioni per gli anni 2022 e 2023.
Sarà quindi la Consulta a dover stabilire nuovamente se il meccanismo adottato in quegli anni per le pensioni sia conforme o meno alla Costituzione.
Il ricorrente, un pensionato che si è visto applicare i tagli, ha incentrato il ricorso non tanto sull’entità della penalizzazione in sé, quanto sul metodo adottato. Che ha ignorato il principio di progressività, applicando il taglio sull’intera pensione, anziché solo sulle fasce superiori.
In altri termini, il punto critico è che, anche ammettendo che un trattamento da oltre 6.000 euro al mese (cifra indicativa per chi percepisce oltre 10 volte il minimo) debba essere lievemente penalizzato rispetto a pensioni più basse, non è corretto applicare ad esempio un 22% di rivalutazione sull’intero importo, ma solo sulle fasce eccedenti, come previsto dal principio degli scaglioni.
Vedremo ora quale sarà la decisione dei giudici costituzionalisti.
Aspettando un nuovo esito della consulta pensioni: si potrebbe arrivare ai rimborsi per i pensionati?
L’attesa è per un esito che, qualora il ricorso fosse accolto, potrebbe anche portare — almeno in teoria — a rimborsi per molti pensionati colpiti dal meccanismo contestato. Una possibilità che nel precedente ricorso, bocciato dalla Consulta, non si era concretizzata. Ma con questo nuovo procedimento, la partita è di nuovo aperta.