Il debito pubblico italiano ha battuto un altro record. Ad aprile, secondo Bankitalia, è stata superata la soglia dei 2.041 miliardi di euro. Son tanti o pochi? Si dice che siano tanti, ma forse non ancora abbastanza per farci capire che di questo passo non si può più tirare la corda senza agire radicalmente sui gruppi di potere e sulle caste, a cominciare da quelle politiche e sindacali che si radicano in tutti gli strati della pubblica amministrazione. Mentre alla Camera si discute delle nozze gay tenendo contestualmente vivo l’inutile dibattito su come rilanciare l’occupazione o come fare per abbassare le tasse, giornalisti compiacenti, asserviti al finanziamento pubblico come un cagnolino al suo padrone, scaricano le responsabilità di ogni cosa fuori dai confini italici.

Tutta, colpa della Germania, dell’euro, della crisi della Spagna e della Grecia che dobbiamo sostenere – tuonano dalle colonne di giornali rigorosamente stampati e invenduti-  dimenticando che il problema dell’esplosione incontrollata del debito pubblico italiano risale ai tempi della finanza allegra di Craxi e si gonfiava ad arte nei salotti più o meno buoni di Mediobanca (se ne sente ancora l’odore passando da Piazzetta Cuccia).

 

Spesa per stipendi pubblici e pensioni fuori controllo

 

INPS

Il quotidiano tedesco Der Spiegel venerdì ha detto che la classe politica italiana è incapace di attuare le riforme necessarie e di tagliare radicalmente la spesa pubblica che è in continua ascesa. Non è una novità, anzi i tedeschi arrivano tardi a queste conclusioni. Forse è un bene per noi che se ne siano accorti solo adesso, altrimenti nell’euro non ci saremmo mai entrati. Ma, del resto, comunque, lo Stato continua a spendere troppo. Se ne vanno per il sistema previdenziale 262 miliardi all’anno e i conti dell’Inps non reggeranno ancora per molto, mentre per gli stipendi dei dipendenti pubblici si spendono quasi 170 miliardi e solo queste due voci rappresentano il 25% del monte debitorio dell’Italia (era meno del 20% prima dell’introduzione dell’euro), solo in parte coperto da entrate tributarie in aumento e per il resto coperto da denaro rinvenente dalla stampa di titoli di stato.

Commercialisti, ragionieri, consulenti, rigorosamente arroccati in organismi corporativi, chiamati “ordini professionali”, non sono in grado di formulare un programma atto a tagliare queste spese, ad abbassare il tetto degli stipendi pubblici, delle pensioni più onerose o a tagliare il vergognoso ricorso alle consulenze, a cominciare da quelle all’ottuagenario Enrico Bondi, ex commissario per la spending review, che per un compenso di 150.000 euro è riuscito maldestramente solo a ridurre l’importo dei buoni pasto dei travet. Forse è vero, quindi, che l’Italia nel contesto europeo è solo un’espressione geografica, come diceva Metternich a metà Ottocento, e la colpa dell’elevato debito pubblico non è da imputare ai tedeschi o da scaricare sulle spalle degli spagnoli e dei greci che potrebbero pensare la stessa cosa di noi. Le responsabilità di tutto ciò è solo del malcostume italiano.

 

Debito pubblico: serve una sforbiciata da 400 miliardi di euro

 

 

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Ma la domanda che adesso tutti inevitabilmente si pongono è: quanto potrà durare ancora? Cosa succederà poi? Secondo quanto trapelato dalle pagine di Facebook circa l’ultima riunione massonica di Bilderberg, il club dei rappresentanti degli uomini più ricchi del pianeta che periodicamente si radunano come se dovessero disputare una partita di poker decidendo in anticipo quale sarà la prossima vittima, il destino dell’Italia pare segnato. Partendo dal fatto che il mostruoso debito pubblico continuerà a gonfiarsi – come riferisce Bankitalia – che le tasse non si possono aumentare più di così e che il Pil non è in grado di sostenerlo anche in previsione di una robusta e fantasmagorica crescita per i prossimi anni, sarà necessario tagliarlo almeno di un quarto per riportarlo al 100% del prodotto interno lordo.

Parole dell’economista Renato Brunetta a cui fanno eco gli studi di numerosi esperti finanziari. Si tratta di 400 miliardi di euro che potranno essere reperiti, a questo punto, solo da una rinegoziazione dei titoli di stato, allungando mostruosamente le scadenze, come avvenuto per i titoli di stato greci. Ma mentre per Atene tutto è accaduto all’ombra di una crisi finanziaria senza precedenti, come se fosse arrivata l’apocalisse, per l’Italia il passaggio sarà meno eclatante, ma comunque doloroso. Così se Maometto non va alla montagna, sarà l’Europa a imporre i necessari tagli agli sprechi della pubblica amministrazione italiana.

 

Titoli di stato e clausole collettive (Cac) 

Dal primo gennaio 2013 sono infatti state introdotte nel nostro ordinamento delle clausole di azione collettiva (Cac) sulle nuove emissioni dei titoli di stato, conformemente a quanto previsto dal meccanismo salva-stati per i paesi europei in difficoltà, che prevedono la rinegoziazione del debito emesso dal Tesoro. [fumettoforumright] Nella sostanza si tratta di una serie di regole che permetteranno agli Stati che vivono una situazione di crisi del debito di attuare una ristrutturazione del debito stesso che darà la possibilità di ricontrattare interessi e scadenze, così come di proporre agli investitori anche lo scambio con obbligazioni differenti. Stando ai numeri, per il 2013 è previsto che il Tesoro rifinanzi, con nuove emissioni, titoli di stato per ben 440 miliardi di euro, cifra che più o meno corrisponde al 25% del debito pubblico complessivo di cui dicevamo prima. Qualcuno potrebbe obiettare che si tratti di una mera coincidenza e che si voglia fare delle congetture, ma ci sono altri elementi che fanno propendere per un finale che non avrà i contorni della “tragedia greca” del 2012, ma che ne ricalcherà fedelmente il percorso.

 

Le preoccupazioni del Tesoro e l’allungamento del debito

 

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Secondo i dati della Banca d’Italia, la quota di debito pubblico in mano ad investitori esteri è tornata sopra i 750 miliardi, mentre quella posseduta dagli italiani è di 1.300 miliardi circa.

Fin qui, non c’è nulla di strano, anzi, la suddivisione della torta lascerebbe intuire una certa incongruenza con quanto detto prima, ma se andiamo a vedere nei dettagli la tipologia di debito venduta dal Tesoro – sempre secondo Bankitalia –  ci si accorge che gli investitori istituzionali esteri hanno comprato soprattutto debito a lunga scadenza, quello dai 10 anni in su, già collocato sul mercato e quindi non soggetto alle clausole Cac, mentre gli investitori italiani detengono soprattutto titoli a breve e media scadenza. Un esempio è dato dal recente collocamento di Btp 4,75% a 30 anni, sottoscritto per i due terzi dall’estero. Questo cosa significa? In altre parole – spiegano gli analisti – chi compra dall’estero titoli lunghi sono soprattutto i fondi pensione e le assicurazioni che non hanno particolari esigenze di guadagno nel breve periodo puntando sostanzialmente a difendere il capitale investito dall’inflazione. Un eventuale allungamento delle scadenze debitorie in caso di esercizio delle clausole Cac coinvolgerebbe, così, solo marginalmente gli interessi dei creditori. Cosa che, invece, non succederebbe per le scadenze brevi e medie in mano agli italiani per le quali (guarda caso) la Corte Costituzionale tedesca sta decidendo sulla legittimità dello scudo anti-spread messo in piedi nel 2012 dalla Bce e che interessa i titoli di stato fino a tre anni di durata. Il problema riguarda non a caso l’Italia. Rispetto a qualche anno fa, infatti, la durata del debito pubblico italiano si è notevolmente accorciata, cosa che mette le finanze pubbliche in una situazione non gradevole. Vista la situazione di maggior calma rispetto al recente passato il Tesoro sta quindi tentando di allungare la durata del debito, anche con la riapertura di emissioni a 15 e 30 anni, proprio per evitare di finire come la Grecia.

In conclusione, quindi, la strada è inevitabilmente segnata per i Btp, resta solo da capire quando questi titoli saranno ristrutturati. Difficile fare previsioni, ma una cosa è certa: più tempo dura la crisi, prima arriverà il conto da saldare da Bruxelles.