La morte di Qaboos bin Said, sultano dell’Oman da 50 anni, ha suscitato commozione nel mondo e tra opposti schieramenti geopolitici. L’uomo si è distinto per la modernizzazione di quello che aveva ereditato come uno stato alquanto arretrato da ogni punto di vista e per la sua opera di costante mediazione nella regione. Il pil di circa 80 miliardi di dollari (18.000 dollari pro-capite) risulta relativamente elevato, ma negli anni recenti i bond sovrani del sultanato hanno perso lo status di “investment grade”, a causa della crisi fiscale generata dal crollo delle quotazioni petrolifere.

L’Oman esporta sopra i 760 mila barili al giorno e le sue entrate statali dipendono ancora largamente dal greggio.

Il sultano dell’Oman lascia una ricca eredità, ma il petrolio pesa troppo sull’economia

Per S&P, i titoli omaniti valgono “BB”, per Fitch “BB+” e per Moody’s “Ba1”. Solo Fitch mantiene prospettive stabili, le altre due agenzie hanno un outlook negativo, per cui non escludono ulteriori declassamenti. L’apparente severità di giudizio, come dicevamo, è legata agli alti deficit fiscali (il disavanzo è atteso prossimo al 9% del pil per quest’anno) e alla incapacità sin qui dimostrata dall’Oman di diversificare la propria economia, così come le fonti di entrate per lo stato. Ancora oggi, a Muscat servono quotazioni del Brent a 85 dollari al barile per chiudere il bilancio in pareggio.

Il nuovo sultano Haitham bin Tariq al Said dovrebbe proseguire l’opera del predecessore e sarebbe stato scelto da questi prima della morte proprio per il suo pedigree maggiormente economico rispetto agli altri potenziali pretendenti al trono. L’Oman si finanzia sui mercati internazionali con emissioni di bond in dollari a scadenze brevi, medie e lunghe. I rendimenti esitati appaiono sin troppo allettanti, così come le cedole. Il titolo in scadenza nel 2021 e cedola 3,6250% (ISIN: XS1405781342) rende il 3,62%, prezzando poco sopra la pari, mentre quello che matura nel 2026 e con cedola 4,75% (ISIN: XS1405777589) offre il 4,55%.

I rischi dei bond omaniti

Spostandoci sulle scadenze più longeve, abbiamo il bond 2047 e tasso 6,50% (ISIN: XS1575968026), che viaggia di poco sopra il 7% di rendimento. Il bond 2048 e con cedola 6,75% (ISIN: XS1750114396) quasi sfiora il 7%. In ogni caso, fate attenzione ai lotti minimi acquistabili, che in quest’ultimo caso sono pari a 200.000 dollari, non esattamente alla portata di tutte le tasche. Il premio offerto lungo la curva non sembra indifferente: +470 punti base per il trentennale, +285 bp per il 2026 e +210 per la scadenza residua a 1 anno sui titoli del Tesoro USA. Il rischio di cambio è legato essenzialmente alle variazioni dell’euro-dollaro, sebbene gli spread offerti dal sultanato dovrebbero compensarlo ed esitare rendimenti effettivi positivi per un investitore dell’Eurozona, persino in termini reali.

Investire in bond emergenti in valute forti?

Ma il rischio di credito non va sottaciuto. Il rapporto debito/pil dell’Oman è solo del 60%, ma se collassassero per una qualche ragione le quotazioni del petrolio, Muscat non avrebbe altre fonti di entrate per tappare i buchi di bilancio, anche perché l’esempio dell’Arabia Saudita dimostra che imporre nuove forme di tassazione richiede tempo e dopo la stagione delle Primavere Arabe nessun governo di uno stato islamico vuole alimentare proteste di piazza. In più, se il Bahrein ha gli stessi problemi e può, però, confidare nel sostegno degli alleati sauditi o degli Emirati Arabi Uniti per farsi assistere finanziariamente in caso di bisogno, non altrettanto può dirsi dell’Oman, che proprio per la sua politica di neutralità non gode delle simpatie delle monarchie del golfo più ricche, Riad in testa.

Infine, per quanto riguarda il livello delle riserve valutarie, esse appaiono adeguate: oltre 16 miliardi di dollari, pari a circa i due terzi delle importazioni annue, pur in forte calo dal record di quasi 23 miliardi di 3 anni e mezzo fa.

Il cambio fisso contro il dollaro accentua gli effetti negativi e positivi dei crolli o delle impennate dei prezzi petroliferi, mettendo nel primo caso a rischio la tenuta proprio delle riserve in valute straniere, necessarie per importare beni e servizi, così come anche per pagare i creditori all’estero.

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