I ministri delle Finanze dell’Unione Europea hanno approvato all’Ecofin di venerdì scorso una bozza di riforma dell’attuale disciplina che regola le emissioni di titoli di stato, tesa a rendere in futuro più facili i processi di ristrutturazione dei debiti sovrani. Il testo, che sarà pubblicato solo quando verranno chiariti i dubbi espressi da alcuni governi sull’interpretazione di alcune previsioni, consente per i bond emessi a partire dal 2022 una maggiore facilità per gli stati di ridurne il valore, tagliare le cedole e allungare la durata.

Come? Già dal 2013, con le cosiddette “CACs” (Clausole di Azione Collettiva) si era proceduto a una semplificazione per permettere agli stati di ristrutturare più agevolmente che in passato i bond, ma queste si applicano a non più del 45% delle emissioni annuali e, comunque, continuano a prevedere regole piuttosto rigide per il raggiungimento delle maggioranze necessarie all’assemblea degli obbligazionisti.

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Con l’ulteriore passo compiuto qualche giorno fa, la ristrutturazione diverrà più agevole, in quanto basterà in futuro convocare un’unica assemblea degli obbligazionisti per la sua approvazione o meno (“single -limb aggregated voting”), anziché ciascuna assemblea per ogni emissione, come avverrebbe ad oggi con le regole vigenti. In questo modo, non si perderebbe tempo nel procedere alla tagliola del valore nominale dei bond e/o delle cedole, nonché all’allungamento della durata. In più, il potere di blocco degli obbligazionisti nelle singole assemblee viene meno, visto che si voterebbe in un’unica assemblea che raggrupperebbe gli obbligazionisti di tutti i bond emessi.

Francia e Italia sono stati i due governi che hanno espresso maggiori perplessità. Una siffatta previsione, infatti, rischia di creare allarme tra gli investitori, in quanto renderebbe più concreta l’ipotesi di una ristrutturazione dei bond da parte degli stati più indebitati, tra cui proprio Italia e Francia.

Scontando un tale rischio, il mercato pretenderebbe un premio più alto per acquistarne i titoli di stato, provocando l’ampliamento degli spread. E’ quanto da tempo accade in Italia con i BTp, i cui rendimenti risultano ormai secondi solamente a quelli della Grecia, attestandosi per la scadenza decennale a 4-5 volte i livelli di emittenti semi-periferici come Spagna e Portogallo.

Rischi strutturali per i BTp

Non è certamente quanto servirebbe al nostro Paese per attirare capitali a costi contenuti. Con la nascita del governo Conte, in particolare, ad essere esploso è stato il rischio percepito di ridenominazione dei bond in lire, cioè di uscita dell’Italia dall’euro. Come facciamo a misurarlo? Attraverso i “credit default swaps”, i titoli che proteggono gli investitori dal rischio di credito. Quelli a 5 anni dell’Italia costano circa 216 punti base o il 2,16% dell’investimento. Parliamo dei cds emessi secondo ISDA (International Swaps Derivatives Association) 2014. Gli stessi cds a 5 anni e relativi ai BTp, ma emessi secondo ISDA 2003, costano poco meno di 135 bp o l’1,35%. Qual è la differenza?

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I cds ISDA 2003 proteggono dai rischi di un evento creditizio, nei quali non è contemplata l’ipotesi di ridenominazione dei titoli. Gli ISDA 2014, anche a seguito dell’introduzione delle CACs che includono espressamente proprio tale ipotesi, inglobano la ridenominazione tra i rischi, per cui la differenza o spread tra i due valori segnala il rischio atteso dal mercato che i BTp vengano rimborsati in una valuta diversa dall’euro alla scadenza, cioè in lire. Fino alla metà di maggio 2018, tale spread si aggirava intorno allo 0,30% e fino al 2017 a non più dello 0,10%. Adesso, viaggia in area 0,80%, un livello in sé non alto, ma in decisa crescita nell’ultimo anno, segno che il mercato avrebbe preso sul serio le minacce del governo giallo-verde contro Bruxelles.

E per quanto la UE rassicuri che le nuove regole, quando entreranno in vigore, “saranno neutrali per la maggior parte degli stati”, è proprio quel non appartenere alla maggioranza che rischia di provocare tensioni strutturali per i BTp, quali che siano i governi di turno.

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