Lo spread è rimasto in area 220 punti base o 2,20% per i titoli di stato italiani a dieci anni. La crisi del governo Draghi interroga il mercato circa la sostenibilità del debito pubblico dell’Italia a ridosso del primo rialzo dei tassi BCE dal 2011. All’inizio dell’anno, un BTp decennale offriva un rendimento dell’1,20%, ieri del 3,40%. Una stangata per un paese con un rapporto debito/PIL al 150%. Gli stessi “credit default swaps” (CDS) a 5 anni, i titoli che assicurano contro un evento creditizio, sono esplosi a 161 punti base o 1,61% dai 91 o 0,91% di inizio 2022.

In questo momento, il rischio di default è atteso nell’ordine del 2,69% entro i prossimi cinque anni. Non sono numeri allarmanti, ma la tendenza è negativa.

I numeri che contano sul debito pubblico

Quanto rischiamo effettivamente investendo nei titoli di stato italiani? E’ chiaro che lo scenario temuto sia quello di una ristrutturazione del debito più che di un default vero e proprio. In altre parole, gli obbligazionisti hanno paura che prima o poi l’Italia sia costretta a ridurre il valore nominale dei bond (“haircut”), ad allungarne le scadenze (“roll over”) e a tagliare le cedole. Ed esiste anche un rischio, pur minimo, di ridenominazione dei titoli di stato emessi in euro in lire, chiaramente nel caso remoto in cui tornassimo alla vecchia moneta nazionale.

Le paure si reggono senz’altro su fatti reali, come l’alto livello d’indebitamento unitamente alla bassa crescita dell’economia italiana. Tuttavia, sarebbe il caso di guardare ai dati con uno sguardo più ampio. Anzitutto, più che l’entità del debito pubblico conta il peso degli interessi per ripagarlo. Lo scorso anno, essi hanno inciso per circa il 3,7% del PIL. Non sono pochi, se raffrontati a un peso negativo per i conti pubblici tedeschi o, addirittura, spagnoli. Ma ricordiamoci che quando vi fu la crisi del debito nel 2011-’12, la spesa per interessi in Italia si aggirava intorno al 5% del PIL.

Ed era del 12% trenta anni fa, a fronte di un debito al 120%.

Il tasso implicito, che segnala il costo effettivo medio ponderato del debito, è sceso in area 2,45%. Il BTp a 7 anni si è portato nel frattempo al 2,90%. Poiché il nostro debito ha una durata media di 7,40 anni, ciò significa che emettere nuovi titoli di stato oggi tende ad aumentare la spesa per interessi. A regime, l’aggravio varrebbe due terzi di punto del PIL. Di conseguenza, per tenere sotto controllo il rapporto debito/PIL servirebbe una crescita nominale (inclusa l’inflazione) prossima al 3%. Nel decennio 2010-2019, essa fu di appena l’1,3%.

Rischi effettivi dei titoli di stato

In assenza di un cambio di passo, le probabilità di tornare ai numeri pre-Covid ci sono tutte. D’altra parte, la BCE stessa stima tassi d’inflazione più alti e, supponendo che il mercato dei bond abbia già incorporato nei prezzi tale scenario, ciò equivarrebbe a pronosticare una crescita nominale del PIL più alta. Sperando, poi, in una pur minima accelerazione della crescita reale, magari grazie al PNRR, riusciremmo almeno ad agguantare un buon 3%. Per quanto sopra spiegato, si rivelerebbe appena sufficiente.

Allo stesso tempo, la politica monetaria non è detto che diventi restrittiva a lungo, né che lo spread resti elevato per anni. In sostanza, investire nei titoli di stato comporta l’assunzione di un rischio di credito, ma che non implica necessariamente alcuno scenario di default. Il rischio maggiore sarebbe semmai di dover digerire una sorta di commissariamento internazionale con tanto di misure draconiane imposte da Bruxelles nell’ottica di un’austerità fiscale dura e necessaria per ottenere una qualche forma di salvataggio da parte delle istituzioni comunitarie. La ristrutturazione del debito, per quanto resa più facile dalle nuove regole legate al MES, applicata a un paese di grandi dimensioni come l’Italia non converrebbe a nessuno.

Verrebbe giù il mondo. L’euro rischiò di sparire per un 107 miliardi di euro di taglio del debito greco. In Italia, i soli titoli di stato valgono quasi 2.300 miliardi.

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