Prezzo dell’oro sopra 1.835 dollari nel corso della seduta di ieri, ai massimi da tre mesi. Dalla fine di marzo, il metallo guadagna il 7,5% e resta di oltre il 3% meno caro dall’inizio dell’anno. Nel frattempo, il dollaro si è indebolito mediamente di circa il 3% contro le altre principali valute. Dunque, all’infuori degli USA il metallo è rincarato meno di quanto le quotazioni lascerebbero supporre. Proprio il biglietto verde meno forte ne ha trainato le quotazioni, ma non solo. I rendimenti americani sono tornati a scendere.

Alla fine del primo trimestre, il Treasury a 10 anni offriva tra l’1,70% e l’1,75%. Ieri, si attestava all’1,53%. Dunque, ha perso oltre un quinto di punto percentuale. E sappiamo quanto i rendimenti globali incidano sul prezzo dell’oro. I bond sono asset d’investimento alternativi alla “commodity”, ma con la differenza che staccano cedole e offrono così un flusso di reddito all’obbligazionista. Quando questo si riduce, la concorrenza al metallo viene meno e il prezzo dell’oro si surriscalda. Viceversa, quando sale.

I rendimenti americani sono ridiscesi dopo il boom dei mesi passati sulle dichiarazioni accomodanti della Federal Reserve. Questa ha lasciato intendere che non alzerà i tassi USA presto, né ritirerà gli altri stimoli monetari, ossia gli acquisti di bond. C’è di più. Se guardiamo ai rendimenti americani reali, ci accorgiamo che risultano diminuiti molto di più di quanto non ci dicano i livelli nominali. A fine marzo, l’ultimo dato sull’inflazione USA disponibile si riferiva a febbraio ed era dell’1,7% annuo. Pertanto, i rendimenti reali allora erano di poco superiori allo zero. Adesso che sappiamo che in aprile l’inflazione americana è salita al 2,6%, i rendimenti reali a 10 anni risultano scesi a quasi il -1,10%.

Prezzo dell’oro e rendimenti reali globali

Dunque, è sceso il gelo sul mercato obbligazionario a stelle e strisce.

Il fenomeno non riguarda il solo comparto sovrano. Prendiamo gli “high yield”, cioè le obbligazioni societarie ad alto rischio: offrivano mediamente più del 4,4% a fine marzo, mentre questa settimana si attestavano al 4,20%. Il loro rendimento reale è così sceso di circa 110 punti base, passando dal 2,7% all’1,6%. E’ evidente che con questi numeri il prezzo dell’oro debba salire. Non solo l’asset subisce una concorrenza molto smorzata rispetto a qualche mese fa, ma oltretutto sconta la reflazione in corso e i venti di cosiddetta “repressione finanziaria”. Per essa s’intende quel fenomeno, in base al quale il mercato è costretto ad accettare rendimenti reali negativi o prossimi allo zero, a causa delle politiche monetarie ultra-espansive delle banche centrali.

Non è la prima volta che accade nella storia economica recente. A inizio anni Settanta e poco prima della fine di Bretton Woods, il prezzo dell’oro viaggiava sui 36-27 dollari l’oncia. Un decennio più tardi, volava sopra 660 dollari. Nello stesso periodo, il Treasury a 10 anni esplodeva dal 6% al 16%, ma al netto dell’inflazione per buona parte del tempo il suo rendimento era rimasto negativo. Guarda caso, la discesa del metallo iniziò con la stretta monetaria della FED di inizio anni Ottanta, che portò i rendimenti reali a lunga scadenza a +350 punti base.

Dovremmo attenderci un trend non troppo dissimile. Poiché difficilmente le banche centrali si precipiteranno nei prossimi anni a contenere l’inflazione, il prezzo dell’oro spiccherà il volo. I rendimenti globali saliranno anch’essi, ma più lentamente dell’inflazione. Del resto, l’obiettivo dei governatori è proprio di contenerli per mantenere la sostenibilità dei debiti sovrani e corporate.

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