Porto Rico è in default dal maggio 2017 e quando sembrava a un passo dal raggiungere finalmente un travagliato accordo con i creditori, ecco che ti arriva la pandemia a rimettere tutto in discussione ancora una volta. Era il febbraio 2020, poche settimane dopo sarebbe arrivato il Covid-19 anche sul territorio autonomo americano, e l’isola caraibica stringeva un’intesa con gli obbligazionisti. Ma ieri, il Financial Oversight and Management Board (FOMB) ha presentato una nuova proposta di accordo, le cui condizioni per i creditori sono peggiorative rispetto a quelle prospettate un anno fa.

Purtuttavia, esso verrebbe sostenuto da obbligazionisti con in possesso circa 11,7 dei 18,8 miliardi di dollari dell’intero debito da ristrutturare. Parliamo delle General Obligations e dei bond del Public Buildings Authority (PSA).

L’incubo di Porto Rico, tra default e catastrofe naturale

Stando al nuovo schema, i creditori riceverebbero 14,4 miliardi in tutto, di cui 7 miliardi cash e il resto attraverso l’emissione di nuove obbligazioni. Inoltre, saranno emessi “contingent bond”, una novità rispetto al negoziato sin qui svoltosi tra le parti. In pratica, i creditori riceverebbero ulteriori pagamenti solamente nel caso in cui le entrate derivanti dall’imposta sulle vendite (la nostra IVA) eccedessero gli obiettivi fissati dal governo portoricano.

Con l’accordo del febbraio 2020, il rimborso complessivo sarebbe ammontato a 15,6 miliardi, 1,2 miliardi in più della presente offerta. Il tasso di recupero dell’investimento oscillerebbe tra il 67,7% e l’80,3% del valore nominale, a seconda del tipo di obbligazione di cui si è in possesso, ma scenderebbe al 53-74,5% se si tenesse conto degli interessi non corrisposti sui titoli. Il servizio sul debito annualmente verrebbe fissato a un massimo di 1,15 miliardi, meno degli 1,47 miliardi prospettati dall’accordo di un anno fa.

Scontro sul taglio delle pensioni

Come dicevamo, la gran parte degli obbligazionisti accetta l’accordo, prendendo atto della condizione finanziaria difficilissima in cui versa Porto Rico.

In effetti, l’isola è in recessione sin dal lontano 2006 e da allora subisce un costante spopolamento. Peraltro, alla cattiva gestione dei conti pubblici e, in generale, dell’economia locale si sono aggiunti uragani, terremoti e crisi politiche. Ad aderire saranno fondi come Aurelius Capital, BlackRock, Davidson Kempner e GoldenTree.

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Ma il paradosso sta nel fatto che a non volerne sentire sarebbe proprio il governatore Pedro Pierluisi, che sottolinea come il FOMB non abbia escluso dall’intesa il taglio delle pensioni. Trattasi di un capitolo molto delicato per l’isola. Lo stato è esposto per 55 miliardi di dollari in assegni attuali e futuri a favore dei lavoratori. Secondo il FOMB, il taglio riguarderebbe solamente il 30% dei pensionati e sarebbe necessario per garantire la sostenibilità dei conti pubblici portoricani, precondizione per attirare la fiducia degli investitori. I tempi per un’eventuale uscita dal default sarebbero tutt’altro che brevi. L’accordo dovrà essere inviato alla corte entro l’8 marzo e nel caso in cui le parti lo siglassero, se ne parlerebbe per fine anno.

In cambio, il FOMB ha annunciato che farebbe cadere l’azione legale con la quale chiede la cancellazione di debiti per 6 miliardi, emessi nel 2012 e nel 2014 in apparente violazione dei limiti fissati dalla Costituzione. Ieri, il titolo con scadenza 1 luglio 2035 e cedola 8% (ISIN: US74514LE869) guadagnava il 4,4%, salendo a 78 centesimi, un livello di circa 10 punti sopra il tasso di recupero offerto dal nuovo accordo. Evidente che il mercato sia diventato fin troppo ottimista. Ma è da anni che Porto Rico dimostra di non meritare la fiducia degli investitori. Troppo scadente la gestione dell’economia. L’isola non può accedere agli aiuti di Washington, in quanto non è uno stato americano. E la precedente amministrazione Trump aveva fatto presente che la loro erogazione sarebbe in aperta discriminazione dei debiti locali emessi da stati e comuni USA.

Insomma, Porto Rico dovrà arrangiarsi da sola.

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