Ieri, il consiglio di amministrazione di ENI ha dato mandato alla società di emettere uno o più prestiti obbligazionari in dollari per un controvalore massimo di 2 miliardi. E la scorsa settimana, Unicredit ha emesso un bond subordinato del tipo Tier 2 e “callable” dopo 10 anni per 1,25 miliardi di dollari. Non solo, anche il Tesoro sta riprendendo le emissioni di BTp in valuta americana per la prima volta dal 2010. Sembra che vi sia una corsa ai bond in dollari apparentemente inspiegabile, se è vero che i tassi di mercato negli USA siano nettamente superiori a quelli vigenti nell’Eurozona, dati i diversi cicli economici tra le due sponde dell’Atlantico, con tanto di divergenza monetaria anche tra le due banche centrali.

In effetti, guardando al bond di Unicredit, notiamo che pagano cedola fissa al 7,296% per i primi 10 anni, cioè 420 punti base in più del “midswap”. A febbraio, il bond dello stesso istituto, sempre un subordinato Tier 2 “callable” e con scadenza decennale, era stato emesso alla pari con cedola al 4,875%. E poiché nelle ultime settimane i rendimenti nell’Eurozona hanno fatto di tutto, fuorché impennarsi, a cosa è dovuta tale differenza? Al fatto che le obbligazioni di febbraio furono emesse in euro. Come dire che indebitarsi in dollari, in questa fase, si rivela di gran lunga più costoso. Se fosse così, dedurremmo che a Piazza Gae Aulenti serpeggi il masochismo e che questo sentimento stia contagiando anche altre grandi società, tra cui il citato colosso petrolifero italiano e persino lo stato.

Al momento, in Italia esistono due soli BTp negoziabili in dollari: quello in scadenza nel settembre 2023 e l’altro a gennaio 2033. Il primo offre poco meno del 4%, il secondo il 4,78%, rispettivamente circa 155 e 265 punti base in più degli omologhi in euro per durata. Si conferma che i titoli in dollari siano più costosi di quelli in euro.

Dunque, ha senso emetterli? Sembra di sì. Guardando ai rendimenti dei Bund e a quelli dei Treasuries a 10 anni, abbiamo che lo spread tra i due sia di 251 punti base oggi, per cui il differenziale cumulato alla scadenza arriverebbe a circa il 25%. Perché mai il mercato dovrebbe comprare Bund, quando i bond americani offrono un quarto in più in 10 anni? Evidentemente, perché si aspettano che l’euro si rafforzi entro tale scadenza contro il dollaro, così da colmare il gap.

L’Italia emetterà debito in dollari dopo 8 anni

La scommessa sul cambio euro-dollaro

Se le previsioni fossero esatte, il cambio euro-dollaro salirebbe nel 2029 a circa 1,4050, rendendo oggi sostanzialmente equivalenti i rendimenti di Bund e Treasuries, perché i primi, una volta riconvertiti in dollari dagli investitori extra-Eurozona, frutterebbero un capitale di valore maggiore. Seguendo lo stesso ragionamento, scopriamo che sulla scadenza a 4 anni e mezzo, il cambio euro-dollaro atteso sarebbe di circa il 12,5% più alto, cioè intorno al 2,8% in più all’anno. In effetti, questo è all’incirca il rendimento extra che il BTp settembre 2023 offre rispetto a quello in euro. Per carità, il mercato può anche prevedere una cosa per un’altra, ma il nocciolo della questione è che gli spread richiesti per i bond in dollari scontano le aspettative future sui tassi di cambio euro-dollaro.

Se nel febbraio del 2029 Unicredit richiamerà il bond da poco emesso e il cross tra le due valute sarà esattamente quanto oggi atteso dal mercato, il capitale da rimborsare agli obbligazionisti ammonterà a soli 890 milioni di euro contro gli oltre 1,1 miliardi al cambio dei giorni scorsi. I risparmi avranno compensato l’extra corrisposto sotto forma di cedole più generose. Si consideri che oggi il bond emesso a febbraio rende il 4,4%, per cui il maggiore costo esibito dal bond in dollari sarebbe di circa il 2,8% all’anno, qualcosa come 35 milioni, pari a 350 milioni in 10 anni, meno di quanto la banca risparmierebbe in fase di richiamo del titolo.

Ma si consideri che l’apprezzamento dell’euro non avverrebbe chiaramente in un solo colpo, bensì gradualmente negli anni, per cui le cedole che di esercizio verranno distribuite varranno in euro sempre meno.

Unicredit emette due senior bond in dollari USA

L’azzardo per l’investitore italiano

Ad esempio, se tra tre anni il cambio euro-dollaro salisse a 1,25, le cedole costerebbero a Unicredit sui 73 milioni di euro, meno degli 81 milioni al cambio odierno. E così via nel tempo. Questo significa che le emissioni di debito in dollari, se il mercato si muoverà come da attese, si riveleranno benefiche per i conti delle società che hanno puntato su di esse, anche perché i rendimenti italiani grosso modo sono oggi più simili a quelli americani che a quelli del resto dell’Eurozona, rendendo più facile vincere la scommessa del cambio. In parole semplici, alle società emittenti italiane serve un rafforzamento dell’euro contro il dollaro inferiore a quello richiesto nel resto dell’area, affinché i bond in dollari abbiano un senso economico.

Ciò non implica, però, che da parte dell’investitore italiano l’acquisto oggi di un’obbligazione in dollari sia un’operazione necessariamente a perdere. Nessuno è in grado di prevedere con tempistica certa come varieranno i tassi negli USA e nell’Eurozona. La BCE ha appena annunciato che non li alzerà quest’anno, quando fino a poche settimane fa si pensava che la stretta monetaria sarebbe stata avviata nella seconda metà del 2019. Se l’uscita dall’accomodamento a Francoforte e/o l’allentamento monetario da parte della Federal Reserve si rivelassero più lenti delle attese, il cambio euro-dollaro si apprezzerebbe meno gradualmente, colpendo da un lato i conti delle emittenti di bond in dollari, ma d’altra parte premiando chi avesse nel frattempo acquistato questi titoli, i quali offrirebbero cedole più generose di quelle in euro, anche scontate le variazioni valutarie subite.

Chiaramente, si tratterebbe di un azzardo, tant’è che le emissioni in dollari puntano ad attirare capitali sul mercato USA, diversificando le fonti di approvvigionamento.

Cambio euro-dollaro, le previsioni del mercato tramite Treasury e Bund

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