Questa settimana sono stati pubblicati i dati circa le variazioni del portafoglio BCE con riferimento ai titoli di stato acquistati con il PEPP. Il programma monetario volto a neutralizzare gli effetti negativi della pandemia sui mercati sovrani nell’Eurozona ha cessato di esistere il 31 marzo scorso dopo due anni esatti di vita. Tuttavia, ad essersi fermati sono stati gli acquisti netti. Man mano che i quasi 1.720 miliardi di euro di bond arriveranno a scadenza, i proventi incassati saranno reinvestiti per acquistare nuovi bond.

Tra giugno e luglio, Francoforte ha venduto titoli di stato tedeschi per circa 14,3 miliardi di euro, mentre ha acquistato titoli di stato italiani per 9,8 miliardi. Altri principali beneficiari degli acquisti sono stati Spagna (5,9 miliardi) e Grecia (1,1 miliardi). Invece, Olanda (-3,4 miliardi) e Francia (-1,2 miliardi) sono state anch’esse oggetto di vendite.

L’obiettivo è chiaro: restringere gli spread. In conferenza stampa a luglio, il governatore Christine Lagarde lo aveva espressamente detto: i reinvestimenti con il PEPP saranno “la prima linea di difesa” contro la speculazione e la conseguente frammentazione monetaria nell’Eurozona. A seguire vi sarebbero anche il TPI, il nuovo scudo anti-spread varato proprio a luglio, e l’OMT del 2012.

Già, ma perché vendere i titoli di stato tedeschi e olandesi principalmente, anziché limitarsi ad acquistare quelli italiani e spagnoli? La prima risposta appare ovvia: vendendo gli uni e acquistando gli altri, si accelera il processo di convergenza dei rendimenti senza esporsi eccessivamente ai debiti del Sud Europa. I rendimenti tedeschi tendono così a salire, quelli italiani a scendere, per cui gli spread si restringono. Ma la motivazione di fondo è più ampia: il PEPP è finito e avendo la BCE la necessità di ridurre la liquidità in circolazione per fermare la corsa dell’inflazione, deve sterilizzare i nuovi eventuali acquisti. Come? Contrapponendo loro le vendite di altri bond.

Senza titoli di stato tedeschi BCE “bad bank”

In effetti, è quanto accaduto a giugno e luglio. A fronte di oltre 18 miliardi di euro di titoli di stato acquistati nel Sud Europa, ne sono stati venduti per quasi 19 miliardi al Nord. Il saldo finale è stato negativo di 705 milioni, cioè il portafoglio PEPP si è ridotto. La BCE ha complessivamente diminuito la liquidità in circolazione, pur di pochissimo. Ciò le sta consentendo di combattere l’inflazione e al contempo gli spread.

Fino a quando durerà questo andazzo? Probabile che la prima linea di difesa sia mantenuta finché lo spread si aggirerà intorno ai 250 punti base senza il soccorso della BCE. Qualora puntasse a 300 punti, scatterebbe un secondo livello di allarme. A quel punto, però, probabile che il board reclamerà l’utilizzo del TPI, che oltre ad essere discrezionale, risulta molto condizionato, tra l’altro all’attuazione delle riforme concordate con la Commissione europea per ottenere i fondi del PNRR. Un modo per condizionare le mosse del prossimo governo italiano che verrà fuori dalle elezioni di settembre.

In generale, i ritmi non potranno essere quelli di questa estate. In soli due mesi, la BCE ha venduto il 3,6% dei titoli di stato tedeschi in portafoglio tramite il PEPP. La loro quota sul totale è scesa così dal 24,8% al 23,9%. L’istituto non potrà continuare a ridurre significativamente la quota dei bond di alta qualità per fare spazio a quelli di qualità inferiore. Rischierebbe di essere percepita come una “bad bank” sui mercati finanziari. E ciò impatterebbe negativamente sull’efficacia della sua stessa politica monetaria.

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