L’India è tornata nella “watchlist”, la lista di osservazione del Tesoro americano per la presunta manipolazione del cambio. A Washington non sta andando giù che Nuova Delhi stia segnando avanzi commerciali sostenuti con gli USA e comprando dollari, finendo per indebolire la rupia indiana. Quest’anno, questa ha perso il 2,3% contro la divisa americana, non granché, ma questo indebolimento sarebbe frutto di una strategia perseguita esplicitamente dalla Reserve Bank of India (RBI). A fronte del rallentamento degli afflussi di investimenti esteri, infatti, l’istituto ha accresciuto le riserve valutarie di quasi 120 miliardi di dollari, a 579,3 miliardi.

Di questi, circa 224 miliardi sono investimenti in Treasuries.

In altre parole, la debolezza della rupia sarebbe auto-indotta. In effetti, gli stessi tassi d’interesse sono fissati al 4%, ben sotto il livello d’inflazione, che a novembre si attestava al 6,9%. Ma il reinserimento nella “watchlist” muta lo scenario. Qualora gli USA definissero formalmente l’India un “manipolatore del cambio”, scatterebbero sanzioni di natura commerciale e difficilmente si arriverà mai a questo, in quanto sarà la stessa India a sventare il pericolo sul nascere, adottando una politica monetaria differente.

Bond India, spunti positivi dalla performance debole

Bond indiani più appetibili

Ed ecco che obbligazioni e azioni indiane sono diventate improvvisamente assai interessanti. Se la RBI cesserà gli acquisti di dollari e altre valute straniere e semmai inizierà a fornire liquidità ai mercati tramite acquisti di titoli di stato a breve termine, il tasso di cambio dovrebbe apprezzarsi e i prezzi dei bond salirebbero, così come quelli delle azioni. Oggi, il decennale sovrano offre un rendimento del 5,95%, giù dal 6,50% di inizio anno. Nel frattempo, la scadenza a due anni è scesa dal 5,75% al 3,88%. Ricordiamo che il mercato sovrano indiano ha rating “investment grade”: BBB- per S&P e Fitch, Baa3 per Moody’s.

Certo, non tutti i fondamentali sono a posto.

La bilancia commerciale esita saldi negativi cronici, segno che l’economia indiana non sia competitiva con il resto del mondo. Per contro, quest’anno le partite correnti stanno segnando surplus imponenti, specchio di afflussi di capitali che superano i deficit commerciali. Ad esempio, nel secondo trimestre del 2020 l’avanzo corrente è stato di 19,8 miliardi di dollari, a fronte di un disavanzo commerciale di 9,2 miliardi. In teoria, questo sarebbe un segnale positivo proprio per il cambio, che non sta ancora beneficiandone per via dell’accumulo delle riserve valutarie da parte della RBI.

Considerate che la caccia al rendimento, già in vigore da prima del Covid, si scatenerebbe ancora di più nel caso in cui l’inflazione rialzasse la testa sui mercati avanzati e le banche centrali, che si sono impegnate a restare ultra-accomodanti per il prossimo futuro, tenessero di fatto i prezzi dei bond sovrani e corporate a livelli altissimi, non potendo né alzare i tassi e né ritirare gli stimoli monetari. A quel punto, l’India diverrebbe una meta importante per i capitali. Quel 5-6% offerto sulle scadenze lunghe farà più gola che mai, se il cambio venisse percepito almeno stabile. Si consideri che nell’ultimo decennio, la rupia indiana ha perso contro il dollaro quasi il 38%, la media del 3,2% all’anno. Un po’ meglio ha fatto contro l’euro: -30% e -2,7% rispettivamente. A questi ritmi, l’intera curva delle scadenze risulterebbe appetibile nei prossimi mesi e anni.

Perché il mercato fugge dai bond indiani, anche se rendono fino al 7%?

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