Netto calo dello spread e dei rendimenti BTp nelle ultime settimane, a seguito sia del cambio di governo a Roma (esce la Lega ed entra il PD nella maggioranza) e del varo di nuovi stimoli monetari da parte della BCE, annunciati al board di giovedì scorso. Il differenziale di rendimento a 10 anni tra Italia e Germania è sceso a poco sopra 130 punti base, con il BTp decennale a offrire meno dello 0,90%. Ma l’impatto della crisi petrolifera, esplose in queste ore con gli attacchi dell’Iran ai danni degli impianti sauditi, rischia quanto meno di rallentare il processo di “normalizzazione” della curva delle scadenze italiane.

Le tensioni internazionali giocano sempre a favore dei cosiddetti “beni rifugio”, perché il mercato vi si ripara per mettere in salvo i propri capitali. Tra questi, troviamo i Bund. Ogni qualvolta che nel mondo esplode una minaccia alla stabilità economica, finanziaria e geopolitica, i titoli di stato tedeschi si apprezzano, per cui i loro rendimenti si abbassano. Anche stavolta dovrebbe essere così e questo implica il rischio di una ri-divaricazione dei rendimenti nell’area rispetto ai bond “core”. In sostanza, gli spread tenderanno con ogni probabilità ad allargarsi in questa e nelle prossime sedute.

E c’è un effetto collaterale più direttamente negativo per i BTp. Il fatto che stamattina il prezzo del petrolio internazionale sia arrivato a salire del 20%, provocando uno shock sui mercati che non si era mai visto in tali percentuali, metterebbe in allerta gli investitori sull’impatto che questo scenario avrà sulle banche centrali. Il greggio rientra tra i fattori più direttamente efficaci per sostenere o indebolire i prezzi al consumo nelle economie importatrici, vale a dire USA, Europa e Giappone. Un boom delle quotazioni rischia di far tornare a salire i tassi d’inflazione più velocemente delle previsioni. Direte, ma non è quello che i governatori disperatamente invocano da anni?

La BCE non stimola ancora le aspettative d’inflazione, lo dicono anche i BTp-i

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Sì, ma non in questi termini.

Le banche centrali vogliono che i rispettivi target d’inflazione vengano centrati, ma per una causa “buona”, cioè che i prezzi al consumo crescano in reazione a una maggiore domanda e a più vigorosi tassi di crescita delle economie. Nel caso in esame, invece, a crescere sarebbe l’inflazione “cattiva”, alimentata dal rincaro delle materie prime per uno shock dell’offerta, non per una robusta ripresa internazionale. In altre parole, l’economia mondiale sarebbe debole come prima, ma avrebbe in più il problema di prezzi in aumento, privando i governatori centrali degli strumenti per sostenere la ripresa dell’inflazione e della stessa economia.

Gli stimoli della BCE non sarebbero certo in forse, ma la loro durata e il varo di ulteriori misure accomodanti dipenderanno proprio dall’andamento dell’inflazione nell’Eurozona, che ricordiamoci essere l’unico obiettivo a cui Francoforte deve ottemperare per statuto. Ebbene, se la crisi petrolifera dovesse perdurare e non si mostrasse passeggera, tali stimoli verrebbero ridotti prima del tempo e non sarebbero con ogni probabilità seguiti da altri. Questo implica un rischio ai danni dei bond e, in particolare, di quelli ad oggi maggiormente dipendenti dagli acquisti dell’istituto, vale a dire essenzialmente i BTp.

Non stiamo sostenendo che la corsa dei nostri titoli di stato sia certamente finita. Non sarebbe così, ad esempio, se le tensioni tra Riad e Teheran rientrassero in breve e l’offerta saudita fosse ripristinata a giorni. Se, invece, fossimo alla vigilia di una escalation geopolitica mediorientale, i capitali fuggirebbero verso i cosiddetti “porti sicuri”, i Bund costerebbero sempre più, mentre i BTp pagherebbero previsioni più fosche per l’area e la stessa economia italiana, segnando il passo.

In sostanza, la crisi esplosa in queste ore è da intendersi ad impatto negativo sui BTp, perché restringe i margini di manovra di Francoforte anche nel caso di un ulteriore deterioramento delle condizioni macro nell’Eurozona.

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