Il board ad hoc di PDVSA, quello che fa capo al presidente Juan Guaido riconosciuto da buona parte della comunità internazionale, tra cui gli USA di Donald Trump, ha pagato ieri una cedola da 71 milioni di dollari, relativa alle obbligazioni 8,5% con scadenza ottobre 2020 (ISIN: USP7807HAV70). Il bond risulta garantito dalle azioni di Citgo, la raffineria con sede nel Texas e controllata dalla compagnia petrolifera statale del Venezuela. Il 49,9% delle sue azioni è in pegno alla russa Rosneft per un prestito da 1,5 miliardi di dollari e il restante 50,1% è dato in garanzia a investitori internazionali per obbligazioni emesse dalla stessa società e dal valore totale di 7,1 miliardi.

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La cedola del bond PDVSA 2020 era scaduta il 27 aprile scorso, ma godeva del periodo di grazia di 30 giorni prima che il mancato pagamento si configurasse formalmente come default. Non sarebbe stata la prima volta. Anzi, tra interessi e capitale della compagnia e del Venezuela come stato sovrano, gli arretrati non pagati ai creditori sin dal novembre 2017 superano i 10 miliardi. Stavolta, però, Guaido ha cercato con tutte le sue forze di mostrarsi rassicurante con i creditori internazionali, a fronte del disimpegno del regime di Nicolas Maduro, impossibilitato a onorare la scadenza anche per via delle sanzioni finanziarie americane.

La difficile condizione finanziaria di PDVSA e Venezuela

Guaido, che Caracas non riconosce come presidente ufficiale, pur essendo stato investito di tali poteri dall’Assemblea Nazionale sulla base dei dettami costituzionali, ha dichiarato che solo rispettando le scadenze, in futuro il Venezuela potrà rinegoziare il debito con gli investitori esteri. Trattasi di una montagna stimata tra 140 e 160 miliardi, di cui 40 contratti da PDVSA, ormai pari a circa 6 volte il valore annuo delle esportazioni venezuelane. Stamattina, la Russia ha confermato che Maduro abbia chiesto a Mosca sostegno per la sua volontà di ristrutturare il debito con gli altri paesi.

Stando a stime non certe, 55 miliardi sarebbero dovuti alla Cina e 17 alla stessa Russia.

In pratica, non solo PDVSA ha visto crollare a marzo la produzione giornaliera a 750.000 barili, ma peraltro metà di essa è impegnata per soddisfare i soli creditori sovrani, per cui il Venezuela non sta riuscendo minimamente a incassare i dollari sufficienti per onorare il debito estero tramite le esportazioni, meno che mai per soddisfare la domanda interna, con il paradosso che il paese con le più alte riserve petrolifere al mondo resti da tempo a secco di carburante e persino di energia elettrica. La risalita della produzione a 1 milione di barili al giorno in aprile non offre alcun sostegno visibile, anche perché a ottobre Citgo dovrà pagare interessi per 913 milioni e ad oggi nessuno sa con quali mezzi potrà affrontare tale onere, nonostante la controllante parli genericamente di attingere risorse da “ricavi petroliferi non riscossi”.

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Anche immaginando che per miracolo ce la facesse, a febbraio del prossimo anno scadono proprio le obbligazioni della raffineria, quelle garantite delle azioni. Come farà Guaido a pagare 7,1 miliardi, pur volendolo con tutte le sue forze? La situazione politica, poi, resta confusa e il disastro finanziario ed economico accelera di giorno in giorno, rendendo impossibile pensare che da qui a fine anno, il Venezuela possa tornare a estrarre petrolio e ad esportarlo a sufficienza per onorare i debiti, anche perché nel frattempo i dollari servirebbero per nutrire una popolazione ridotta alla fame per l’impossibilità di importare alcunché dall’estero, mentre le riserve in valuta straniera si aggirano a soli 8-9 miliardi di dollari. L’ombra del default non lascia Caracas dopo il pagamento della cedola di ieri, né sarebbe ormai il principale problema di un paese in cui milioni di cittadini tentano la fuga per sopravvivere.

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