Ieri, l’Angola ha emesso obbligazioni di stato in dollari USA per un controvalore di 3 miliardi, riscuotendo un notevole successo sui mercati finanziari, dove gli ordini si sono attestati complessivamente a 8 miliardi, quasi il triplo rispetto all’importo offerto. Due le tranche: una a 10 anni e con cedola all’8%, rivista dall’8,25% inizialmente ipotizzato; la seconda a 30 anni con cedola 9,125%, anch’essa rivista al ribasso dalla guidance iniziale del 9,375%. Le agenzie di rating giudicano il debito della terza più grande economia africana come “junk” o “spazzatura”: “B-” per S&P, “B3” per Moody’s e “B” per Fitch.

Le cedole offerte sulle obbligazioni appena emesse risultano in linea con quelle delle obbligazioni esistenti. Il titolo con scadenza nel 2025 offre il 9,50% e attualmente rende poco meno del 6,65%. Nell’ultimo triennio, ha guadagnato il 25%. Quello che scade nel 2028 e con cedola 8,25% rende, invece, il 7,30%. Infine, il trentennale 2048 offre il 9,375% all’anno, ma rende l’8,82%, prezzando sopra la pari.

Obbligazioni africane: Angola 9,50% 2025

Angola tra crisi e speranze

I rendimenti appaiono allettanti, sebbene parliamo di un’economia emergente in crisi, tant’è che questo che sta concludendosi per l’Angola sarà il quarto anno consecutivo di recessione. Eppure, il mercato si sta appigliando ad alcuni spunti positivi per investire sul suo mercato sovrano, certamente mosso dalla fame di “yield”, che spinge a chiudere un occhio sulle criticità fiscali di un paese indebitato per quasi il 100% del suo pil. Anzitutto, il cambio di passo in politica. Dopo 38 anni di “regno” dell’ex presidente José Eduardo dos Santos, nel settembre 2017 si è insediato Joao Lourenço, appartenente allo stesso partito di matrice comunista, ma apparentemente più rassicurante per la comunità internazionale.

Dopo decenni di ruberie, sembra che il nuovo presidente punti a una maggiore trasparenza nella gestione dell’economia, ancora fin troppo dipendente dal petrolio, bene che rappresenta il 95% delle esportazioni complessive, cioè un terzo del pil.

L’Angola beneficia di un programma di assistenza finanziaria del Fondo Monetario Internazionale e le emissioni di bond in dollari puntano a raccogliere liquidità da investire per la diversificazione dell’economia, oltre che per tamponare le casse dello stato, sebbene nel 2018 il rincaro del greggio sui mercati abbia contribuito a far chiudere il bilancio statale in attivo del 2,2% per la prima volta dopo 6 anni.

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Malgrado il basso rating, gli investitori tornano a guardare con interesse allo stato africano, un tempo florido negli anni d’oro di dos Santos. Due le ragioni: i proventi del petrolio garantirebbero i pagamenti delle obbligazioni in dollari da qui ai prossimi anni, attenuando la percezione del rischio di credito; l’economia dovrebbe tornare a crescere dall’anno prossimo, giovandosi anche delle misure messe in campo dal governo, tra cui la svalutazione del cambio, con il kwanza ad avere perso un terzo del suo valore dall’abbandono del cambio fisso contro il dollaro a ottobre. E sotto Lourenço, ha perso ben i due terzi, evidentemente per via del livello troppo forte a cui era tenuto sotto il regime di cambio precedente. Ciò dovrebbe andare a beneficio delle riserve valutarie e della bilancia commerciale, al netto dell’andamento del petrolio.

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