I primi riscontri del “roadshow” di Aramco, alla vigilia dell’emissione delle obbligazioni in dollari per almeno 10 miliardi, appaiono più che positivi. Il gigante del petrolio saudita starebbe suscitando estremo interesse tra gli investitori di tutto il mondo, tanto che non si esclude che il bond alla fine sarà di importo superiore e che esiterà un rendimento quasi uguale a quello sovrano di Riad, pagando un premio sostanzialmente nullo. In effetti, i numeri emersi dal prospetto pubblicato nelle scorse settimane e che per la prima volta hanno svelato i dettagli finanziari della compagnia sono stupefacenti.

Il 2018 ha registrato un utile netto di 111 miliardi di dollari, il più alto al mondo, a fronte di 356 miliardi di ricavi. E l’Ebitda è stato di 224 miliardi, mentre al regno sono state pagate imposte per 102 miliardi, a cui si aggiungono i 58,2 miliardi tramite dividendi. Infine, le royalties. Complessivamente, Aramco ha contribuito nel 2017 per il 63% delle entrate statali saudite, confermandosi vitale per le finanze pubbliche, nonostante la “Saudi Vision 2030” del Principe Mohammed bin Salman punti ad allentare la dipendenza dell’economia domestica dal settore petrolifero.

Aramco, prima emissione del bond a giorni e arrivano i rating di Fitch e Moody’s

Proprio la natura di società statale ha limitato il giudizio delle agenzie, con Fitch e Moody’s ad avere assegnato rispettivamente i rating “A+” e “A1”, limitati proprio dal rating sovrano. Trattasi per entrambe del quinto gradino della scala dei giudizi, segnalando una forte solidità finanziaria della compagnia, seppure deludendo le aspettative di quest’ultima, che puntava, addirittura, a spuntare rating e rendimenti migliori di quelli sovrani.

I rischi del bond Aramco

A dire il vero, sembra proprio che i rischi legati all’emissione obbligazionaria siano così bassi da giustificare rendimenti davvero potenzialmente persino inferiori a quelli esitati da Riad per i suoi bond. In fondo, il bond varrebbe nemmeno un decimo dell’utile netto maturato nel solo 2018.

In più, se è vero che il business della compagnia resti esposto alle variazioni delle quotazioni internazionali del petrolio, proprio il ricorso al mercato dei capitali sarebbe legato all’acquisizione per 69,1 miliardi del 70% di SABIC, colosso petrolchimico saudita, attraverso il quale punta a diversificare la sua attività, diventando un gigante più generalmente energetico.

Tuttavia, dal prospetto emergono varie sorprese, che confermano quanto le informazioni di cui ad oggi abbiamo goduto siano state parziali e frammentarie. Ad esempio, si è scoperto che dal 2017 Riad ha mutato i termini per il calcolo delle royalties, ossia dei diritti di sfruttamento che Aramco deve pagare al regno. Esse sono calcolate in misura progressiva rispetto al prezzo del Brent. E qua sta la novità, perché i prezzi del greggio saudita sono normalmente inferiori del 2-3% rispetto al Brent, se non anche del 4-5% in alcune fasi. In altre parole, se è vero che l’imposta sull’utile sia stata abbassata dall’85% al 50%, d’altra parte le royalties sono state alzate in maniera subdola, cioè aumentando la base imponibile su cui effettuare il calcolo. Inoltre, i dividendi continuano ad essere molto generosi, anche se non intaccano la capacità di investimento della compagnia, che dispone di ingenti risorse finanziarie. Resta il problema di una politica fiscale ancora in larga parte finanziata dalle entrate petrolifere, un fattore di rischio non secondario per gli investitori che si approcciano alla compagnia.

Bond Aramco, questione di rating: ecco il possibile rendimento del colosso petrolifero saudita

Il fattore geopolitico

Aldilà di tutto, il vero rischio che presentano le obbligazioni di Aramco, specie se dovessero essere emesse sul tratto lungo della curva (si parla di scadenze tra i 3 e i 30 anni), riguarda il contesto geopolitico e proprio gli accadimenti di questi giorni ce lo segnalano.

L’Arabia Saudita ha minacciato di cessare le vendite in dollari del petrolio, qualora al Congresso passasse il “NOPEC”, una norma che punta a privare i dirigenti dell’OPEC dell’immunità sul suolo americano con riferimento alle leggi antitrust. In sostanza, ad oggi le autorità americane non possono perseguire i rappresentanti dell’organizzazione, nonostante si tratti di un cartello petrolifero, teso a restringere la concorrenza in fase di produzione e fissazione dei prezzi. Esso è guidato proprio dai sauditi, che per la seconda volta in due anni, nel dicembre scorso hanno annunciato nuovi tagli all’output per sostenere le quotazioni del Brent.

Il presidente Donald Trump, pur non più apertamente da quando è presidente, sostiene il NOPEC, chiedendo all’organizzazione di lasciare scendere le quotazioni secondo i meccanismi del mercato. In realtà, la legge già era passata nel 2000, sebbene da allora non sia mai stata attuata. E’ improbabile che nel prossimo futuro diventi efficace, anche perché Trump si mostra un alleato di ferro di Riad, ma il caso segnala che in una prospettiva a lungo termine, nulla può darsi per scontato. Se i sauditi davvero smettessero di vendere petrolio in dollari, ponendo fine al patto che li lega all’America sin da inizio anni Settanta, da un lato colpirebbero lo status di valuta di riserva globale del biglietto verde, dall’altro sarebbero molto probabilmente costretti a subire una fase di transizione potenzialmente caotica. Ricordiamoci, ad esempio, che il cambio tra rial e dollaro sin dal 1986 è fissato da un “peg” a 3,75 e che nel caso in cui venisse meno, le entrate di Aramco ne risentirebbero, in quanto verrebbero generate in dollari (o altre valute) sui mercati esteri per essere convertite successivamente in valuta locale, una condizione molto meno rassicurante per gli obbligazionisti, anche se il bond verrà emesso in dollari.

Quanto alle riserve petrolifere disponibili, anche scontando una produzione al massimo della capacità ribadita nel prospetto (12 milioni di barili al giorno), ci vorrebbero almeno 61 anni per esaurirle, sempre che nel frattempo la tecnologia non renda possibile ulteriori estrazioni e che non vi siano scoperte di nuovi giacimenti.

Insomma, i rischi arriverebbero quasi esclusivamente dal contesto geopolitico, non da quello più propriamente legato al business. Si consideri, poi, che proprio nella sua qualità di leader del cartello, il regno avrebbe pur modo di incidere sulle quotazioni internazionali, nel caso scendessero drammaticamente, così com’è avvenuto negli ultimi anni. Resta da vedere, infine, se l’emissione del bond preceda l’IPO annunciata nel 2016 e rinviata al 2021, oppure se ne rappresenti un’alternativa sul piano della raccolta dei capitali. Nemmeno con questi numeri stratosferici, secondo i principali commentatori, si giustificherebbe una capitalizzazione di 2.000 miliardi, come attesa dal principe MbS. E difficilmente Riad cederebbe una parte dei suoi gioielli di famiglia, se non a carissimo prezzo.

L’Arabia Saudita ha bisogno di petrolio a quasi 90 dollari, in attesa dell’IPO di Aramco

[email protected]