I governi dei mercati emergenti quest’anno dovrebbero emettere nuovi bond per 3.000 miliardi di dollari, il doppio del 2019. Anche qui il Covid-19 ha colpito l’economia, impattando negativamente sul gettito fiscale e costringendo gli stati a sostenere i redditi a colpi di debito. E si consideri che su questi stessi mercati vi sarebbero altri 1.500 miliardi di debiti in scadenza da rinnovare. Stando ai calcoli del Fondo Monetario Internazionale, il deficit pubblico in 40 di queste economie, Cina compresa, nel 2020 si attesterà a una media del 10,6%, più del doppio del 4,9% del 2019.

Bond emergenti in dollari, cosa accadrà nel prossimo futuro?

Il 90% delle nuove emissioni avverrebbe in valute locali, mentre sono già una ventina le banche centrali che hanno annunciato e avviato programmi di acquisto dei bond governativi. Le sole prime otto hanno già acquistato 550 miliardi di dollari, circa la metà delle emissioni in valute locali. Addirittura, la banca centrale dell’Indonesia non solo sta rastrellando obbligazioni sul mercato secondario, ma dopo un’apposita modifica allo statuto sta direttamente finanziando il governo all’asta, girandogli gli interessi sul debito acquistato.

Questa pratica, nota come monetizzazione del debito, è assai pericolosa e sta prendendo piede, per il momento solo sul piano del dibattito pubblico, nello stesso Occidente. In Sudafrica, si ragiona in tal senso, anche se ancora la Reserve Bank sta evitando di dar seguito a queste richieste dal mondo politico. Quando il debito si crea senza un contestuale drenaggio dei capitali (moneta) sui mercati, la massa monetaria in circolazione cresce e rischia di destabilizzare i prezzi.

C’è emergente ed emergente

Senza arrivare così lontano, si guardi a quanto accade in Turchia, dove i tassi d’interesse sono stati tagliati a circa 400 punti base sotto il più recente dato sull’inflazione, per cui la politica monetaria di Ankara risulta disfunzionale e tale da corroborare le aspettative di crescita dei prezzi.

L’inflazione gioca un brutto scherzo per gli investitori sui mercati obbligazionari, in quanto impatta negativamente sui tassi di cambio, di fatto riducendo i guadagni ottenuti dai bond in valute locali. E al contempo innalza i rischi anche per i bond emessi in valute forti (dollari, euro, etc.), in quanto rende più probabile il verificarsi di eventi creditizi avversi, vuoi perché il valore di questi debiti diventa meno sostenibile per i governi emittenti, vuoi anche per l’assottigliarsi delle riserve valutarie, particolarmente vero per i paesi con tassi di cambio (semi-)fissi.

Dunque, quando parliamo di mercati emergenti diciamo tutto e nulla. Una cosa sarebbe la Thailandia, con la sua stabilità macro e alta affidabilità creditizia, un’altra la Nigeria, dove l’eccessiva dipendenza dal petrolio crea situazioni difficili da gestire in fasi come queste di collasso delle quotazioni internazionali. Soprattutto, vale la storia recente e passata di ciascuna banca centrale. Un istituto che storicamente si mostra assai poco indipendente rispetto al potere politico non è garanzia di stabilità dei prezzi e dovrebbe metterci in allarme quando la congiuntura globale e della specifica economia si affievolisce. L’unica fortuna, per il momento, di tutti i mercati emergenti risiede nell’azzeramento dei tassi presso tutti i mercati avanzati, che a sua volta spinge l’investitore a caccia di rendimento all’assunzione di maggiori rischi. Ma trattasi di un fenomeno di corto respiro.

Bond emergenti, ecco due titoli ad alto rischio in dollari da cui guardarsi bene

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