L’incontro di martedì al quartiere NATO di Bruxelles tra il presidente americano Joe Biden e il collega turco Recep Tayyip Erdogan ha quantomeno stabilizzato la lira turca. Il suo tasso di cambio contro il dollaro si mantiene in area 8,54, non lontano dal minimo storico toccato a inizio giugno di 8,69. I rendimenti obbligazionari restano anch’essi altissimi: al 18,26% sulla scadenza a 10 anni, al 18,52% sulla scadenza a 2 anni.

Dopo la Federal Reserve, oggi è la volta della banca centrale di Ankara. E l’istituto americano ha sì mantenuto i tassi invariati, così come l’apparato degli stimoli, ma ha segnalato di voler anticipare l’avvio della stretta.

Adesso, 13 funzionari su 18 si attendono almeno un rialzo dei tassi nel 2023 e ben 7 se ne attendono 2. Con una FED dai toni meno accomodanti, si direbbe proprio che Ankara disponga ancora di minori margini di manovra rispetto a quanti ne avesse ieri.

Il governatore Sahap Kavcioglu sarà chiamato a decidere se tenere i tassi d’interesse invariati o se tagliarli. Stando alle sue recenti dichiarazioni, secondo cui “un taglio adesso sarebbe fuori questione”, la politica monetaria turca non dovrebbe mutare. In realtà, il diavolo si nasconderà anche stavolta nei dettagli ed è probabile che nel comunicato i toni utilizzati saranno più accomodanti. Già il riferimento a possibili rialzi dei tassi nel prossimo futuro è stato eliminato, un chiaro segnale del fatto che l’allentamento monetario si avvicina.

Depone a favore di questa lettura anche il lieve calo a sorpresa dell’inflazione a maggio, scesa dal 17,1% al 16,6%. Il presidente Erdogan continua a reclamare pubblicamente un taglio dei tassi immediato. Per questo, ha sostituito per la terza volta dal luglio 2019 il governatore centrale. Il predecessore di Kavcioglu era stato in carica per appena quattro mesi e mezzo, nel corso dei quali i capitali esteri affluiti sulle azioni e le obbligazioni in lira turca erano stati pari a 5,18 miliardi di dollari.

Da quando è andato via, i deflussi netti sono stati di 1,92 miliardi. Segno inequivocabile della sfiducia che il mercato nutre nei confronti della banca centrale.

D’altra parte, l’avere tenuto invariati i tassi con l’inflazione in salita e avere registrato una pur lieve discesa di quest’ultima incoraggia il governo a pensare di avere ragione sul fatto che tassi alti provochino alti prezzi. Sta di fatto che chi avesse acquistato un bond a 10 anni a inizio gennaio, oggi avrebbe in portafoglio un asset in perdita. A fronte di un rendimento nominale del 12,5% di allora, infatti, la lira turca ha perso già il 13% quest’anno. Non sarebbe andata meglio con il bond a 10 anni in dollari di Ankara: quotazione a -5,65% e rendimento in ascesa dal 5,35% al 6,10%. E per fortuna che almeno il cambio euro-dollaro si è tenuto sostanzialmente invariato rispetto a fine 2021, altrimenti avremmo dovuto mettere in conto anche le perdite valutarie.

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