La borsa americana ha aperto ieri in calo sul dato dell’inflazione USA in aprile, cresciuta su base annua del 4,2%, ai massimi da 13 anni. Le aspettative erano ben più contenute, specie per la crescita mensile: è risultata dello 0,8% contro il +0,2% atteso. Al netto dei prodotti alimentari e della componente energetica, l’indice dei prezzi al consumo è aumentato del 3% annuo e dello 0,92% mensile. In quest’ultimo caso, si è trattato del maggiore rialzo dal 1981. A marzo, l’inflazione USA era salita al 2,6%. L’accelerazione del mese scorso crea apprensione, non solo sui mercati finanziari.

Di fatto, adesso il dato si attesta su livelli più che doppi rispetto al target della Federal Reserve del 2%.

Il Treasury a 10 anni è salito dall’1,61% all’1,67% dopo la pubblicazione, mentre più contenuta è stata la reazione del trentennale, passato dal 2,34% al 2,36%. Drastica l’accelerazione anche per il Bund a 10 anni, salito al -0,14%, livello massimo da due anni. E il BTp di pari durata compiva un altro passo verso la soglia dell’1%, salendo allo 0,96%.

L’inflazione USA si sta surriscaldando oltre le attese, in virtù dei maxi-stimoli fiscali e monetari varati rispettivamente dal governo (vecchio e nuovo) e dalla FED. Nelle scorse settimane, l’ex governatore e oggi segretario al Tesoro, Janet Yellen, aveva avvertito sulla necessità di un rialzo dei tassi per scongiurare un possibile surriscaldamento eccessivo dell’economia americana. Ma forse nemmeno lei si aspettava un dato così alto per aprile. Certo, la FED avrà buon gioco nell’affermare che si tratti di una fiammata, cioè di un rialzo passeggero. Tuttavia, diventa sempre più chiaro che sia insostenibile mantenere stimoli così potenti con un’economia in ripresa veloce dopo il Covid.

Inflazione USA e normalizzazione monetaria

Lo spettro di una normalizzazione monetaria quanto prima e che parte dagli USA fa male al mercato obbligazionario. I rendimenti nominali non potranno rimanere su livelli così bassi con tassi d’inflazione così in rapida ascesa.

Malgrado il loro rialzo recente, i rendimenti reali stanno diminuendo bruscamente. A dicembre, il Bund a 10 anni offriva il -0,8/-0,9%, tenuto conto dell’inflazione tedesca. Adesso, viaggia sotto il -2,10%. Infatti, il rendimento nominale è salito di circa mezzo punto percentuale, ma l’inflazione è esplosa nel frattempo dal -0,3% al 2%.

Il forte rialzo dell’inflazione USA rimarca anche l’uscita dalla gravissima crisi provocata dalla pandemia. E a sua volta, ciò fa venire meno l’esigenza di tenere i tassi d’interesse azzerati. In sostanza, tutto depone a favore di una stretta monetaria non imminente, ma certamente neppure così lontana come pensavamo fino a qualche mese fa. Nell’Eurozona, a farne le spese sarà quasi certamente il PEPP, i cui acquisti dei bond saranno con ogni probabilità rallentati già in estate o subito dopo. Poiché il graduale ritiro degli stimoli nell’area rischia di riacutizzare la frammentazione dei mercati finanziari al suo interno, lo spread BTp-Bund è destinato a lievitare per il maggiore rischio sovrano percepito.

Va da sé che le scadenze più lunghe soffriranno più di tutte per la più alta “duration”. Ieri, la quotazione del BTp 2072 è scesa di mezzo punto percentuale, mentre il rendimento è salito al 2,43%. Rispetto alla sua emissione di aprile, siamo già a circa un quarto di punto in più. In generale, poi, la curva delle scadenze dovrebbe diventare più ripida nel caso in cui il mercato scontasse una maggiore inflazione solo parzialmente contrastata dal rialzo dei tassi, per cui questi ultimi diverrebbero ancora più negativi in termini reali. Viceversa, se prevedesse una stretta decisa a contenere sin da subito l’inflazione (scenario poco probabile), assisteremmo a un appiattimento della curva: i rendimenti a breve salirebbero più velocemente di quelli a lungo.

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