I rendimenti dei BTp a 10 anni sono risaliti di una decina di punti base rispetto ai minimi toccati per gran parte del mese di agosto. Questa mattina, si attestano in area 0,64%, mentre lo spread sulla medesima scadenza viaggia a 104. Lo scoglio di Jackson Hole può dirsi per il momento superato. La Federal Reserve ha fatto presente che verosimilmente avvierà la riduzione degli acquisti di bond entro l’anno, ma che questo non comporti un rialzo dei tassi USA in vista.

E di fatto, anche i rendimenti americani sono saliti, ma entro limiti fisiologici. Considerato l’alto tasso d’inflazione negli USA, poi, parliamo di livelli reali a dir poco infimi. Comunque sia, anche la crisi afghana partecipa al buon andamento dei rendimenti dei BTp, così come degli altri bond sovrani. La presa del potere di Kabul a Ferragosto da parte dei talebani surriscalda la temperatura mondiale. La sicurezza dell’area mediorientale torna a vacillare, mentre si riaffaccia l’incubo degli attacchi terroristici contro l’Occidente, anche per mano dell’ISIS.

Il caos scatenatosi con il ritiro dei militari americani dall’Afghanistan crea un clima di “risk-off” sui mercati finanziari. A beneficiarne sono i titoli di stato, com’è ovvio. Fino a quando? La paura fa bene ai bond, deviando investimenti dal comparto azionario e da quello obbligazionario “high yield”. Ma non tutti i bond sono uguali. I BTp sono percepiti come titoli relativamente rischiosi tra i titoli di stato. Questo significa che se la paura degenerasse al punto di minacciare le aspettative di crescita del PIL mondiale e, di riflesso, italiano, la loro performance inizierebbe a deteriorarsi.

Rendimenti BTp minacciati?

Può da sola la crisi afghana portare a questo scenario? Probabilmente, non nel breve termine. I talebani a Kabul rappresentano una minaccia alla sicurezza mondiale, ma allo stesso tempo non dovrebbero cercare alcun confronto energico con gli USA e il resto dell’Occidente in questa prima fase.

Resta il fatto che rischiano di divampare tensioni geopolitiche che covano da tempo tra Washington e Pechino, in particolare. Vuoi per il sostegno accordato dalla Cina al nuovo regime, vuoi per la ricerca di un fronte potenzialmente “vincente” sul quale scaricare la frustrazione di una disfatta clamorosa, l’amministrazione Biden potrebbe riprendere in mano il capitolo della “guerra” commerciale con la seconda potenza mondiale.

E in una fase in cui già le catene del valore risultano frammentate a causa dei “lockdown” nazionali, una tale prospettiva incoraggerebbe le aspettative d’inflazione per effetto della re-localizzazione produttiva, ma anche di possibili ritorsioni che accentuerebbero carenze di materie prime come le terre rare. Vedi la crisi dei chip in corso. Ma non si tratta di uno scenario dell’oggi e neppure del domani. Passeranno mesi o forse anni prima che attecchisca. O così sembra.

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