32.534 società emittenti di obbligazioni, che per l’85-90% godono di rating altissimi, vale a dire “AAA” e “AA”. Pensate che in America, i bond negoziabili e con rating tripla “A” rappresentano solo il 5% del totale e quelli “AA” ed “A” un altro 15%, mentre il 60% si colloca nella fascia “BBB” e il restante 20% in quella “spazzatura” o speculativa. Il confronto evidenzia, quindi, come il mercato obbligazionario indiano sia relativamente affidabile. E, tuttavia, mostra subito un problema non di poco conto: è piccolo.

Incide, infatti, per appena il 16% del pil del subcontinente asiatico, pari a qualcosa come poco più di 390 miliardi di dollari. In media, quindi, ciascuna società risulta avere emesso bond per un controvalore di appena 12 milioni. Insomma, ci sarebbe un problema di liquidità, accentuato dal fatto che per oltre il 95% le emissioni avvengono tramite collocamenti privati, cioè attraverso il sostegno di banche e altri intermediari finanziari.

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Il mercato corporate americano, invece, vale qualcosa come 25.000 miliardi, il 120% del pil USA o un buon 30% di quello mondiale. Gli emittenti finanziari continuano a fare la parte del leone in India, rappresentando quasi l’82% dei bond circolanti, nettamente più del 13,4% dei bond sovrani e del 4% di quelli corporate.

Il governo di Nuova Delhi ha cercato negli ultimi anni di vivacizzare il comparto, innalzando la quota di debito corporate che un investitore straniero può detenere. I risultati stanno tardando ad arrivare, anche se va riconosciuto il trend positivo, con le emissioni nell’anno fiscale 2016-’17 salite al 4,4% del pil da circa il 3,6% dell’anno precedente. E tra il marzo 2016 e il marzo 2018, le obbligazioni corporate negoziabili risultavano cresciute di 1,36 volte e la società CRISIL stima che entro il 2023 raddoppieranno dai livelli attuali, salendo a circa 55-60.000 miliardi di rupie, qualcosa come sugli 800 miliardi di dollari ai tassi di cambio attuali.

Il rischio cambio e di liquidità

Rating così solidi si mostrano abbastanza allettanti. In effetti, nell’ultimo decennio il mercato dei corporate bond indiani ha reso circa il 123%, cioè la media dell’8,3% all’anno. Certo, molto meno rispetto al mercato azionario, che ha fruttato il 335%, pari a circa il 15,8% medio annuo, ma parliamo di cifre consistenti, anche raffrontate con la principale piazza finanziaria nel mondo, cioè Wall Street. E nemmeno il costante deprezzamento della rupia indiana, che nell’ultimo lustro è stato pari al 10% contro l’euro, ha intaccato i rendimenti effettivi più di tanto.

Il principale rischio, quindi, oltre a quello di cambio, risiede nella scarsa liquidità del mercato. Quando la società IL&FS è andata in default su alcuni pagamenti dovuti nel corso dello scorso anno, la disponibilità del mercato a prestare agli emittenti non finanziari è letteralmente precipitata. Per contro, il grosso delle obbligazioni emesse arriva dal comparto bancario e finanziario, il cui capitale è composto essenzialmente dai depositi a breve termine dei clienti. Ciò rischia di creare problemi alle scadenze, visto che tali titoli spesso vengono emessi per sostenere investimenti di lungo periodo delle imprese. Nel caso in cui una o più società avesse problemi a onorare le scadenze, il rischio diverrebbe sistemico con il diffondersi del panico tra piccoli e grandi investitori. L’unica vera soluzione alla ristretta liquidità domestica sarebbe aprire definitivamente ai mercati stranieri, ma esiste un limite non di poco conto all’indebitamento nei confronti degli investitori non indiani: il cambio.

Emettere bond in rupie disincentiva gli stranieri ad acquistarli, almeno a rendimenti accettabili per gli emittenti, mentre farlo in valute forti come dollaro, euro e yen rischia di rivelarsi imprevedibilmente costoso, nel caso in cui il cambio dovesse continuare a deprezzarsi anche nei prossimi anni. Alla base delle previsioni negative sulla rupia vi è il cronico disavanzo commerciale dell’India, nonostante i tentativi del governo di porvi un freno, stangando le importazioni di oro negli anni recenti.

Parliamo di un deficit intorno ai 180 miliardi di dollari annui, qualcosa come 7 punti di pil.

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