Dubai ha affidato a un consorzio bancario composto da Dubai Islamic Bank, Emirates NBD Capital, First Abu Dhabi Bank e Standard Chartered il compito di collocare sui mercati internazionali un sukuk a 10 anni e obbligazioni a 30 anni “benchmark”. La definizione implicherebbe che il taglio delle due tranche in dollari sia di 500 milioni ciascuna. Le due emissioni rientrerebbero in un più vasto programma di sukuk per 6 miliardi e di obbligazioni per 5 miliardi, rispettivamente. I sukuk sono titoli del debito compatibili con la legge islamica, la quale vieta formalmente di prestare denaro dietro interessi.

Abu Dhabi piazza il suo bond a 50 anni al 2,7%, il più longevo di sempre nel Golfo

L’emirato dovrebbe accusare un crollo del pil nell’ordine del 12% quest’anno. Tra il 2018 e il 2019, ottenne il rinnovo per altri 5 anni di 20 miliardi di prestiti concessi dai vicini del Golfo Persico. Al 30 giugno scorso, risultava indebitato direttamente per 34 miliardi, ma a questo dato bisogna sommare quello dei debiti delle entità controllate. Nel complesso, ad esempio, entro la fine dell’anno prossimo dovrebbe rinnovare debiti per 15,9 miliardi.

L’emissione di Dubai arriva a pochi giorni dai 5 miliardi di dollari raccolti da Abu Dhabi, la capitale degli Emirati Arabi Uniti. E anche il Bahrein ha annunciato una nuova emissione “benchmark” internazionale, la prima dopo quella da 2 miliardi a maggio. Il paese quest’anno è atteso registrare un deficit al 15,7% del pil, il più alto rilevato dal Fondo Monetario Internazionale per il 2020. Anche il Bahrein è stato salvato nel 2018 con un maxi-prestito da 10 miliardi, elargito dai vicini del Golfo. Dovrebbe avere bisogno di emettere debiti per almeno 1 miliardo entro la fine di quest’anno.

Bassi rating, ma default improbabili

Il decennale collocato sul mercato alla pari a maggio è salito in area 116,40 e offre attualmente un rendimento di poco inferiore al 4,90%. Molto bassi i rating: “B+” per S&P e Fitch, “B2” per Moody’s.

Si tratta di un livello “non investment grade”, anche noto come “spazzatura” o “junk”. In effetti, la situazione fiscale nel regno è abbastanza delicata, al di là del temporaneo tracollo delle quotazioni petrolifere. Per tendere al pareggio di bilancio, infatti, avrebbe bisogno di quotazioni sopra i 90 dollari al barile, il doppio di quelle attuali.

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Tornando a Dubai, il trentennale dovrebbe offrire almeno un rendimento del 4% per risultare allettante, dato che il suo bond sukuk in scadenza nel 2043 e cedola 5,25% (ISIN: XS0880597603) rende oggi il 3,93%. Non parliamo di livelli eclatanti, nemmeno rapportati a quelli offerti dal Treasury di pari durata. Il Golfo Persico riesce ad attirare capitali in abbondanza, pur spesso con rating bassi come nel caso del Bahrein, un po’ per i bassi livelli di indebitamento, un po’ per la fiducia che gli investitori nutrono verso le entrate petrolifere nel medio-lungo termine. Inoltre, i bail-out di quest’ultimo decennio, orchestrati dall’Arabia Saudita, confortano sulle ridotte probabilità di default in caso di forti criticità. L’ancoraggio geopolitico a Riad costituisce una certa fonte di sicurezza per il mercato.

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