E’ tornata l’era glaciale per i rendimenti obbligazionari, anzi non era mai finita, semmai negli ultimi 2 anni ci eravamo illusi che avremmo rivisto a breve bond capaci di almeno coprire il tasso d’inflazione, specie nel tratto lungo della curva delle scadenze. Invece, indietro tutta. Nelle ultime tre settimane, il mercato a reddito fisso è salito a un controvalore di 55.000 miliardi di dollari, circa 1.600 in più. Sappiamo anche che esistono nel mondo sui 10.000 miliardi di bond con rendimenti negativi, quasi un quinto del totale e segno che gli investitori si mostrano disposti persino a sobbarcarsi perdite, pur di impiegare la liquidità in titoli considerati sicuri.

Quando i rendimenti sono così infimi, due le alternative principali che si presentano davanti a quanti volessero rimanere su questo mercato: assumersi maggiori rischi e acquistare bond con rating inferiori o anche detti “high yield” o “junk”; spostarsi sulle scadenze più lunghe. Anche in questo secondo caso, i rischi aumentano, in quanto ci si espone a una volatilità superiore nei casi di rialzo dei tassi.

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Che la finanza mondiale si sia spinta a ingozzarsi anche di obbligazioni corporate e sovrane qualitativamente più scadenti, pur di ottenere un minimo rendimento, è cosa risaputa. Il fatto curioso è, invece, che coloro che si stiano spostando in questi mesi sulle scadenze più lontane non otterrebbero remunerazioni dignitose. Sapete che alcuni stati con rating molto solidi hanno emesso debito anche a 100 anni. In Italia, nell’autunno del 2016, approfittando di condizioni sui mercati abbastanza favorevoli, il Tesoro emise per la prima volta un BTp con durata 50 anni, in scadenza nel 2067. Fu soprannominato subito dalla stampa con l’espressione ironica di “bond Matusalemme”. E di Matusa ne esistono parecchi e ben più vetusti in giro.

Rendimenti a 100 anni sotto l’inflazione, hanno senso?

L’Austria ha un bond in scadenza nel 2117, che solo nel mese di marzo ha registrato un’impennata delle quotazioni di quasi il 15%.

Un affarone per quanti lo avessero acquistato in precedenza e rivenduto in questi giorni. E sapete quanto rende? Intorno all’1,2%. Una miseria, incapace di coprire l’inflazione. Se la BCE da qui ai prossimi 100 anni fosse capace di centrare il target a poco meno del 2%, grosso modo, ai prezzi attuali, avremmo perso i due terzi dell’investimento, in termini reali. Anzi, lo avrebbero perso i nostri figli, per non dire i nipoti. Molto difficile, anche ad essere ottimisti, di arrivare vivi alla scadenza.

Il Belgio di bond così longevi ne ha emesso uno, che come quello dell’Irlanda scade nel lontanissimo 2116. Attualmente, offre un più allettante 2,3%, che oltre ad essere doppio rispetto al rendimento di Vienna, grosso modo arriverebbe a coprire almeno la perdita del potere di acquisto, anche se da qui a un secolo non possiamo avere la minima idea di come varieranno i prezzi e se l’investimento si sarà rilevato positivo per le future generazioni. Chi ci dice che tra 50-60-70 anni non vi sia una fase di inflazione a doppia cifra e tale da azzerare il valore reale del bond acquistato oggi?

Volendo rimanere in questo secolo, le occasioni d’investimento a lunghissimo termine non mancano. Il problema resta lo stesso: il rendimento miserrimo. Per il suo bond in scadenza nel 2064, cioè tra 45 anni, la Svizzera ci offre al momento lo 0,28%. Qui, ad occhio e croce perderemmo la bellezza dell’1,5% all’anno con un’inflazione prossima al 2%, come la desidera la BCE. Dovremmo confidare esclusivamente nell’effetto cambio, ossia nell’apprezzamento del franco svizzero contro l’euro, per recuperare valore, attraverso lo stacco annuale delle cedole e, soprattutto, il rimborso del bond alla scadenza, quando si presenteranno a riscuoterlo i nostri nipoti, per i più attempati ci penseranno forse i pronipoti.

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L’affare sta nel rivenderli

L’Austria si mostra molto più generosa con l’1,17% offerto sui bond in scadenza nel 2062, poco meno dell’1,27% esibito dal titolo rimborsabile nel 2086, cioè tra quasi 70 anni. Quest’ultimo ha fruttato un buon 22% da ottobre, cioè in meno di un semestre, battendo il quasi 20% messo a segno dai bond secolari di Belgio e Irlanda quest’anno. Viste così le cose, si capisce che non è detto che non si possa guadagnare anche percentuali di tutto rispetto, confidando nel rialzo delle quotazioni, a loro volta legate a prospettive ribassiste sui tassi. In effetti, il vero senso di acquistare un bond a lunghissima scadenza per un investitore privato non è lasciarlo in eredità a figli, nipoti e via discorrendo, quanto di metterlo anche per anni in un cassetto, in attesa che il mercato cambi eventualmente direzione, premiando i titoli più longevi, grazie alla maggiore sensibilità che i relativi prezzi mostrano rispetto ai tassi. E qui, hanno avuto fortuna coloro che hanno acquistato questi bond emessi un po’ tutti di recente, cioè da pochissimi anni, che forse nemmeno si aspettavano che avrebbero potuto capitalizzare così presto, essendo state le aspettative sui tassi fino a qualche mese fa ben più “hawkish” nell’Eurozona.

Il trentennale tedesco, ad esempio, un anno fa rendeva esattamente il doppio di oggi, l’1,16% contro lo 0,58%. In termini di prezzi, parliamo di un +16%, percentuale per la quale avremmo dovuto attendere altrimenti la riscossione di almeno 13 cedole annuali. I grandi affari, quindi, si stanno facendo sul tratto lunghissimo delle curve. E il discorso vale anche per i BTp. Il 2067 rende oggi il 3,6%, con le quotazioni ad avere guadagnato il 4,3% solo a marzo. Chiaramente, la manna dal cielo scenderà solo fino al raggiungimento dei livelli minimi di rendimento, dopodiché forse dovremmo attendere diversi anni prima di rivendere il titolo a prezzi superiori a quelli di acquisto.

E non è detto che ci si riesca tempestivamente, essendo le relative emissioni poco liquide. La crescente “giapponesizzazione” del mercato obbligazionario finora sta regalando soddisfazioni proprio a quanti si pensasse avessero fatto un pessimo affare, buttandosi in titoli destinati solo a deprezzarsi. Miracoli di un mondo alla rovescia, dove chi s’indebita viene pagato da chi il suo debito lo acquista.

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