Nei primi sei mesi dell’anno, gli investitori stranieri hanno ridotto le loro detenzioni di obbligazioni in valuta locale sul mercato turco di 7 miliardi di dollari, il peggior dato di sempre per una prima metà dell’anno nella storia di Ankara. Adesso, posseggono appena il 5% del debito sovrano turco, giù da quasi un terzo nel 2013. Il trend negativo da anni sta semplicemente accelerando negli ultimi tempi, a causa del collasso del cambio. La lira turca ha perso il 18,7% contro l’euro da inizio 2020 e malgrado i costosi interventi della banca centrale, che da mesi vende assets in valute straniere per sostenere il cambio.

 

La lira sempre più debole sta allarmando il mercato. Non solo dall’estero si acquistano sempre meno bond in valuta locale per il timore di accusare perdite per via dell’effetto cambio, ma si teme che i debitori turchi non saranno in grado di fronteggiare i pagamenti in valuta estera, divenendo per loro sempre più costosi. Ad esempio, il titolo denominato in dollari, in scadenza nel gennaio 2030 e cedola 11,875% (ISIN: US900123AL40) ha perso oltre il 3% nelle ultime sedute, pur rimanendo nettamente sopra i minimi dell’anno.

 

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Peggio forse non alle spalle

 

Contrariamente a quanto possiamo immaginare, il peggio potrebbe ancora arrivare. Il governatore Murat Uysal ha alzato le stime sull’inflazione turca per fine anno dal 7,4% all’8,9%, aggiungendo di non avere in programma alcun aumento dei tassi dall’attuale 8,25%. Questo significa che la banca centrale formalmente sta adottando una politica dei tassi reali negativi, un fatto che non potrà che agevolare ulteriori deflussi dei capitali e alimentare le stesse aspettative d’inflazione. Non a caso, i rendimenti sovrani in lire sono decisamente risaliti nelle ultime settimane, attestandosi adesso ai massimi da aprile.

Il decennale offre il 13% e il biennale l’11,32%.

 

A questi livelli, la curva delle scadenze segnalerebbe che il mercato stia scontando un ulteriore surriscaldamento dei prezzi al consumo nel medio-lungo termine e un costo del denaro molto più alto di quello attuale, altrimenti non si capirebbe perché il titolo a 2 anni debba offrire oltre 300 punti base in più del tasso d’interesse fissato dall’istituto. Ricordiamo che a giugno l’inflazione è risultata in salita al 12,62%, circa 435 punti base sopra il costo del denaro. Si tratta di livelli insostenibili, che dovrebbero sfociare o in una nuova maxi-stretta monetaria come nel 2018 per non perdere il controllo del cambio e della stessa stabilità dei prezzi o nell’accettazione di una maxi-svalutazione del cambio per non intaccare ancora le riserve valutarie, che al netto delle passività dell’istituto risultano ormai negative.

 

Comunque la si veda, non finirà bene per gli obbligazionisti. Gli alti rendimenti turchi stonano di questi tempi con i livelli calanti e storicamente bassi anche sui mercati emergenti, riflettendo gli alti rischi che si corrono con Ankara sul fronte cambio, così come di credito, se è vero che i cds a 5 anni costino poco meno di 500 punti base, pur a fronte di un rapporto debito/pil a fine 2019 del 33%.

 

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