Negli ultimi due anni la borsa di Caracas ha sfavillato una performance del 90%. Una crescita incredibile che ha sorpreso i più ottimisti strategist di Wall Street, anche perché questa impetuosa salita è avvenuta in un contesto internazionale di profonda crisi economica. Ma cosa è successo?

 

Economia Venezuela: la strategia di Chavez

Da quando il presidente del Venezuela Hugo Chavez ha promesso di offrire agli investitori ottimi rendimenti (era la fine del 2010) in modo da stimolare il comparto del risparmio consentendo allo stesso tempo alle compagnie nazionalizzate di ottenere adeguati finanziamenti, l’indice della borsa valori socialista di Caracas ha inanellato una serie interminabile di rialzi.

Questo, benché non si sia tradotto in condizioni economiche migliori per la popolazione, ha allontanato la speculazione internazionale (leggasi FMI) e le grandi corporations occidentali che avevano allungato le mani sui tesori del Venezuela: sono state chiuse ben 15 banche straniere e 40 agenzie di intermediazione finanziaria a causa di tassi di cambio artificiali e fraudolenti e il rilascio dei visti per scopi commerciali è stato passato ai raggi X. Lo stato si è quindi fatto garante di ogni forma di investimento e del proprio debito pubblico che è uno fra i più alti dell’America Latina richiamando contestualmente in patria gran parte delle riserve auree detenute all’estero e offerte in passato come garanzia per il debito pubblico venezuelano al FMI. Il completamento del processo di nazionalizzazione imposto da Chavez, con in testa la compagnia petrolifera statale PDVSA, e il riconoscimento delle autorità internazionali del Venezuela quale paese con la maggiore riserva petrolifera accertata del mondo (296,5 miliardi di barili, pari al 18% del totale mondiale) hanno poi fatto il resto, al punto che il rendimento medio delle obbligazioni “popolari” venezuelane (taglio minimo 1.000 dollari per tutti) si è ridotto di un terzo nonostante le agenzie di rating abbiano abbassato nel 2011 il merito creditizio del paese caraibico.
Ora però, alla vigilia delle elezioni presidenziali, il rischio che qualcosa possa cambiare è concreto e chi ha investito nella Repubblica di Chavez non può che monitorare con attenzione l’esito delle elezioni di domenca prossima.

 

Elezioni in Venezuela: Chavez verso il terzo mandato, ma non sarà facile questa volta

 

Stando agli ultimi sondaggi, la terza vittoria di Chavez alle presidenziali sarebbe in bilico. Le presidenziali previste per il 7 ottobre in Venezuela potrebbero essere le più combattute degli ultimi tempi, data l’incertezza dell’esito fino all’ultimo momento. Il candidato dell’opposizione è Henrique Capriles Radonski, il leader della “Mesa de la Unidad Democrática” (MUD), una coalizione di opposizione che unisce liste di varia natura politica, dai liberali al socialdemocratici, fino ai centristi. Il programma di Capriles “Petròleo para el progresso“ promette di aumentare i guadagni sulla vendita del petrolio, che poi saranno utilizzati per sviluppare programmi a carattere sociale, prima di tutti “Plan Hambre Cero”, che prevede di non comperare più armi e carri armati, ma di investire le risorse per aiutare i cittadini. Chavez, personaggio estremamente controverso, gode però di grande popolarità e viene dato favorito anche perché, grazie a lui, il Venezuela adesso è entrato a far parte del Mercosur, fornendo un deciso contributo alla comunità sudamericana, sia a livello economico che sul piano politico, senza contare i vantaggi e cioè che circa il 48% delle esportazioni venezuelane, per la maggior parte idrocarburi, sono dirette proprio verso i membri del Mercosur. Il Pil venezuelano, grazie al Mercato del Sud, crescerà ancora al punto che gli esperti prevedono il superamento della barriera dei 400 miliardi di dollari già quest’anno (nel 2011 era di 387 miliardi di dollari). Un cambiamento di rotta politica – secondo gli esperti – rischierebbe di compromettere, non solo i legami con gli altri paesi appartenenti al Mercosur (270 milioni di persone, 3,3 miliardi di dollari di Pil all’anno), ma anche i delicati equilibri con i paesi esterni, quali la Cina e la Russia, storicamente vicini al Venezuela di Chavez e ora anche ai due terzi del Sudamerica.

Non a caso, Chavez, ha ammonito che c’è il rischio di pericolose destabilizzazioni e una guerra civile se l’opposizione dovesse andare al potere coi suoi programmi neoliberali.

 

Obbligazioni Venezuela al top degli ultimi 12 mesi. Chi compra e perché?

 

Dal punto di vista finanziario, negli ultimi mesi il prezzo delle obbligazioni venezuelane è salito di molto, determinando una discesa de i rendimenti al di sotto del 10% per la parte breve della curva, nonostante il calo della domanda di petrolio a livello internazionale. A comprare sarebbero – secondo diverse fonti – fondi obbligazionari cinesi e americani, fra cui Pimco (che gestisce 925 miliardi di dollari), i quali, al di là dell’esito della campagna elettorale, credono che il Venezuela reciterà un ruolo ancora più importante e strategico nei prossimi anni sullo scacchiere internazionale. L’obiettivo manifesto di Caracas è quello di innalzare la capacità produttiva, che dovrebbe più che raddoppiare a 6 milioni di barili di petrolio al giorno nel 2018 (2,7 nel 2011) avvicinandosi a quella dell’Arabia Saudita (11,1 milioni al giorno). La chiave di volta di questa strategia è rappresentata dallo sfruttamento del bacino dell’Orinoco, che potrebbe attirare numerose compagnie mondiali essendo i costi estrattivi inferiori alla media. Nonostante il rallentamento dell’economia mondiale, quindi, la domanda di petrolio, soprattutto da parte di Cina e India – sostengono gli analisti di Standard & Poor’s, che hanno mantenuto stabile il rating del paese a B+ – farà comunque salire le esportazioni della compagnia statale PVDSA del 13%. In aggiunta a ciò, gli analisti di UBS in un recente report hanno fatto notare che l’intera regione del Sudamerica è diventata economicamente più stabile dopo il default dell’Argentina e grazie alla forte crescita del Brasile, divenuta ormai la quinta potenza mondiale.

Sicchè i grossi fondi internazionali hanno incrementato le loro quote di investimento nel Venezuela e nella compagnia statale PDVSA confidando nella continuazione della crescita economica e della stabilità politica del Sudamerica, sempre meno soggiogata agli interessi del Fondo Monetario Internazionale.

 

Default Venezuela: rischio incombente per il 2013

 

Il  rischio però che Il Venezuela non riesca ad onorare i 110 miliardi di dollari di debito pubblico non è remoto. E non sarebbe la prima volta. Già nel Luglio del 1998, tre mesi prima che Chavez andò al potere, Caracas non riuscì a rimborsare 270 milioni di dollari su un prestito obbligazionario domestico e dovette ristrutturare il debito. Ora, da Bank of America a Morgan Stanley, si stanno alzando in coro sempre più insistenti le voci che il Venezuela fra meno di un anno non sarà in grado di ripagare il proprio debito e in particolare rischia di franare su due rimborsi da complessivi 4,3 miliardi di dollari previsti fra agosto e novembre 2013. Del resto, Caracas aveva già faticato non poco fra Luglio 2010 e Ottobre 2011 a rifinanziare più di 13 miliardi di dollari in scadenza offrendo tassi d’interesse a due cifre e scadenze lunghe nel tempo con il prezzo del petrolio che stava sopra i 100 dollari al barile. Ora, con il prezzo del greggio che punta a 80 dollari al barile, per il Venezuela si fa decisamente più difficile rifinanziare quote di debito in scadenza – riporta Bloomberg in una recente intervista agli analisti – dato che i ricavi di Caracas poggiano essenzialmente sulle esportazioni di greggio nel mondo. In altre parole, il paese sudamericano ha assolutamente bisogno che il prezzo del petrolio si mantenga su livelli elevati, sia per i conti statali, sia per finanziare nuovi investimenti nel settore estrattivo. Nell’ultima riunione dell’Opec, il cartello che raggruppa le nazioni esportatrici, proprio il paese guidato da Chavez ha chiesto di abbassare la produzione per sostenere il prezzo del petrolio, che da marzo ha ceduto circa 30 dollari. Ma la proposta non è stata accettata. Inoltre, Chavez ultimamente ha speso più soldi per estendere il controllo statale sulle principali risorse del Venezuela (ricorrendo anche a massicci investimenti in armamenti per le forze armate) di quanti incassati con l’esportazione di greggio o lo sfruttamento di giacimenti auriferi e di gas su cui Caracas punta molto per diversificare il proprio export e non dipendere esclusivamente dal petrolio in futuro (attualmente il greggio costituisce la quasi totalità delle esportazioni del Venezuela e corrisponde alla metà delle entrate pubbliche). Secondo Francisco Rodriguez di Bank of America, il Venezuela ha il 55% di probabilità di andare in default nella seconda metà del 2013, come testimonia l’impennata dei credit default swap sopra i 1.200 punti, il 2% in più negli ultimi due mesi. In ogni caso, chiunque vinca le elezioni – sostiene Daniel Volberg di Morgan Stanley – il debito statale non sarà sostenibile a lungo: il Venezuela ha il più grande deficit dei paesi dell’America Latina, mentre le riserve del Tesoro sono scese in 4 anni da 25,6 a 17 miliardi di dollari. Così come le esportazioni di PDVSA si sono attestate a 2,72 milioni di barili di petrolio nel 2011 (erano 3,48 nel 1998).