WeWork verrà ricordata a lungo con ogni probabilità per il disastro d’immagine rimediato in questi giorni, quando avrebbe dovuto tenere una IPO per fare il suo ingresso ufficiale a Wall Street, mentre ha dovuto cancellare l’operazione. Nel frattempo, il suo amministratore delegato Adam Neumann si è dimesso per cercare di allontanare dalla società le nubi che si stavano addensando e che avevano portato a dubitare della bontà dell’IPO. Non solo non è riuscito nell’intento, semmai ha solo aggravato la sensazione di una società allo sbaraglio.

Facciamo un passo indietro.

WeWork è una società che fornisce spazi di condivisione per il lavoro di start-up tecnologiche e ha sede a New York. Lo scorso anno ha chiuso in perdita per 1,9 miliardi di dollari e nei primi 6 mesi del 2019 ha già accusato un rosso di oltre 900 milioni. Il mercato ha nutrito dubbi sul modello di business della ex quotanda, anche perché si tratta di un ambito non ancora testato in tempi di crisi. E si sa che l’economia americana, dopo avere corso parecchio per più di 10 anni, sia a rischio di recessione nei prossimi anni.

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Rating declassato e rischio liquidità

In più, l’IPO stava avvenendo a prezzi giudicati elevatissimi, valorizzando WeWork ben 47 miliardi, mentre il riscontro tra gli investitori dava una forchetta assai più bassa, ovvero compresa tra 10 e 15 miliardi. La stampa si è messa anche a investigare su Neumann, mettendone in forse serietà professionale, capacità gestionali e persino la vita privata. Alla fine, IPO cancellata. Il contraccolpo è stato immediato ed enorme. Fitch ha declassato il rating delle obbligazioni 2025 e cedola 7,875% (ISIN: USU96217AA99) di due gradini a “CCC+”, S&P di un gradino a “B-” con prospettive “negative”. In sostanza, il debito di WeWork, già giudicato “spazzatura”, oggi lo è ancora di più.

E il suddetto bond da 702 milioni di dollari ne ha risentito abbastanza, se è vero che alla fine di settembre, nei giorni immediatamente precedenti alla sperata IPO, quotava in area 104, mentre martedì scorso è arrivato a crollare a 82, risalendo a 84 nelle sedute successive, perdendo comunque un abbondante 20%.

E non si tratta di un classico contraccolpo psicologico, perché dall’IPO la società puntava a raccogliere come minimo 3 miliardi, mentre altri 4 miliardi sarebbero arrivati con emissioni di debito “secured” e 2 dalle lettere di credito. Queste opzioni non sono più sul tavolo. Ciò implica anche che WeWork sia rimasta con liquidità in cassa per 2,5 miliardi, i livelli al 30 giugno scorso, sufficienti teoricamente a garantirne la sopravvivenza fino alla metà dell’anno prossimo.

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La società ha già annunciato la riduzione del personale per un quarto del totale, ma ugualmente i mercati non si sono fatti impressionare. A questo punto, la liquidità verrà sostenuta non soltanto dal minore costo del lavoro, bensì pure da operazioni di venture capital, sebbene restino elevati i rischi nel medio periodo per gli obbligazionisti. In effetti, il rendimento del bond 2025 è salito fino alla doppia cifra e attualmente giace a poco meno di essa, in area 9,59%, quasi 400 punti base in più del rendimento medio delle “high yield” in dollari; il segno che stavolta nemmeno un ambiente di tassi infimi riesce a sostenere i prezzi del titolo, dati i rischi di credito reali all’orizzonte.

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