Prima della pubblicazione dei dati sul lavoro a settembre negli USA, il T-bond a 10 anni venerdì scorso offriva un rendimento in area 3,85%. Non è poco, se si considera che al momento il mercato prezza l’inflazione a 5 anni intorno o poco meno del 2,30%. Le aspettative si sono decisamente “raffreddate” nelle ultime settimane, segno che la politica monetaria portata avanti dalla Federal Reserve starebbe avendo successo. Resta il fatto che il rialzo dei tassi d’interesse americani continui ad essere il più veloce nel mondo.

Il costo del denaro è già salito al 3,25% contro l’1,25% dell’Eurozona, tanto per darvi un esempio.

Effetto evidente di questa stretta monetaria è il rafforzamento del dollaro. Diventato super contro le principali valute mondiali, ha travolto uno dopo l’altro l’euro, la sterlina e lo yen. La Banca d’Inghilterra è dovuta scendere in campo per annunciare il ritorno temporaneo all’acquisto di Gilt, mentre la Banca del Giappone ha dovuto difendere lo yen per la prima volta dal 1998.

Ed è proprio dal Giappone che arrivano paradossalmente notizie negative sui T-bond. Nel mese di settembre, le riserve valutarie nipponiche sono diminuite di 54 miliardi di dollari. Il calo è attribuibile quasi totalmente ai -50,73 miliardi accusati dai titoli di stato in portafoglio, composto perlopiù da T-bond. Gli analisti scorgono in questi dati la conferma che Tokyo avrebbe venduto titoli di stato americani per indebolire il dollaro contro lo yen.

T-bond traditi dal super dollaro?

Il ministro delle Finanze, Shunichi Suzuki, si è rifiutato di fornire conferme a tale riguardo, sostenendo che il calo sia attribuibile al deprezzamento delle attività in euro per via dell’indebolimento della moneta unica e del rialzo dei rendimenti USA. Quest’ultimo ha provocato effettivamente un calo dei prezzi dei T-bond. Sappiamo anche che, in difesa del cambio, Tokyo ha speso 2.800 miliardi di yen, circa 19,2 miliardi di dollari.

Superato il precedente record dei 2.600 miliardi di yen nell’aprile 1998.

Il Giappone non è certamente l’unica economia a patire il super dollaro in questa fase. Tra l’altro, persino la Cina ha visto collassare lo yuan ai minimi dal 2008, l’anno della crisi finanziaria mondiale. Cina e Giappone risultano i principali detentori di T-bond con 970 e 1.234,3 miliardi di dollari rispettivamente nel mese di luglio. In entrambi i casi, peraltro, i dati sono scesi vistosamente su base annua di 98,3 e 75,9 miliardi. Il trend segnala che le principali banche centrali starebbero vendendo titoli di stato americani per tenere a bada i tassi di cambio. Altre minori potrebbero trovarsi costrette a farlo per la necessità di ottenere liquidità con cui importare materie prime, che oltre ad essere rincarate, sono denominate proprio nel “super” dollaro.

Questi movimenti potrebbero comportare cali di prezzo per i T-bond, ovvero rialzi ancora più consistenti dei rendimenti. A loro volta, questi ultimi attirano ulteriori flussi di capitali negli USA, un po’ come un cane che si morde la coda. E, dunque, qualcuno compra T-bond per i suoi rendimenti elevati, mentre altri li vendono per difendere il cambio. Ne conseguirebbe una maggiore volatilità e, se vogliamo, una certa instabilità finanziaria globale. Ad un certo punto, però, gli acquisti di titoli americani iniziano a risultare poco allettanti per l’eccessiva forza del dollaro. I maggiori rendimenti offerti potrebbero non bastare in futuro per compensare le perdite sul fronte valutario. Solo avvisaglie di recessione per l’economia americana porrebbero fine alla super stretta sui tassi FED e allo stesso apprezzamento del dollaro, dando sostegno ai prezzi dei T-bond in qualità di “safe asset”.

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