Dal Vietnam alla Thailandia, dal Marocco passando per la Turchia, fino al Quatar. Sono questi i nuovi mercati emergenti, destinati nei prossimi anni ad affiancare i paesi del tradizionale blocco emergente (ormai già emerso) conosciuto come Bric. In queste aree geografiche periferiche del mondo, la crisi europea che sta attanagliando l’Europa e più in generale le economie mature e i paesi industrializzati non sanno nemmeno cosa sia, così come non sanno delle difficoltà dell’euro, dato che la valuta forte di riferimento è e resta per tutti il dollaro americano.

Scommettere su questi paesi – a detta degli esperti – significa cavalcare occasioni di crescita irripetibili, alimentate da fenomeni di accelerazione nello sviluppo di consumi interni paragonabili a quanto è già avvenuto in Cina alla fine del secolo scorso. Tuttavia, queste nuove frontiere sono ancora disseminate di insidie costituite da rischi di instabilità politica e crisi di liquidità che rendono questi mercati molto volatili e difficilmente accessibili ai singoli investitori. Già nel lontano 1998 il crollo che seguì all’impetuosa crescita delle tigri asiatiche fece riflettere investitori e gestori di fondi al punto che nessuno ci mise più dentro un dollaro per anni. Ma allora il boom fu indotto dall’eccessiva disponibilità di credito, in pratica questi paesi si indebitarono molto per produrre più del necessario. Ora le cose stano in maniera differente e questi mercati si stanno riscoprendo come alternativa di sviluppo alla crisi dei paesi ricchi appesantiti dai troppi debiti contratti in passato.

 

Rappresentano il 3,5% del Pil mondiale e possiedono grandi risorse naturali

 

Paesi come Nigeria, Pakistan, Vietnam, Kuwait, ecc. rappresentano per i fondi internazionali, nuovi mercati di frontiera promettenti con forti tassi di crescita previsti da qui al 2020. Godono di risorse naturali in abbondanza (i tre quarti delle riserve mondiali di petrolio e il 60% di quelle di gas, senza considerare le altre materie prime) facilmente sfruttabili.

La manodopera a basso costo e il trend demografico favorevole – spiega Sean Taylor gestore di un fondo specializzato sui mercati emergenti – non farà altro che bene alla crescita del Pil nei prossimi anni, con tassi che dovrebbero attestarsi fra il 4% e il 7% medi. Già i grossi capitali internazionali si stanno orientando verso queste aree in via di sviluppo, ma è probabile che in futuro cominceranno a spostarsi in maniera sempre più massiccia e veloce in queste regioni geografiche. La banca americana Citigroup – ad esempio – sta potenziando le proprie attività a Singapore assumendo personale e incrementando gli impieghi. Così come alcune multinazionali americane attive nel settore tecnologico e metalmeccanico che hanno messo radici già da tempo in alcuni paesi del sud est asiatico. Anche l’italiana Piaggio ha aperto stabilimenti in Vietnam e Malesia cogliendo grosse opportunità di espansione. Questi mercati – spiega Rami Sidani uno dei gestori di Shroeders Isf Frontiers – sono complessivamente riconducibili a un Pil di 2,2 miliardi di dollari all’anno, circa il 3,5% del prodotto interno lordo globale, rappresentano il 12% della popolazione mondiale con una larga maggioranza di giovani under 30 prossima al 60%. Paesi come Nigeria, Pakistan e Vietnam sono poco sensibili all’andamento del ciclo macroeconomico globale, grazie a dinamiche dei consumi interni che valgono il 70-80% del Pil. Altri, come il Kuwait o il Quatar generano surplus di bilancio del 20-30% per effetto delle esportazioni di greggio vantando conti pubblici da fare invidia alle economie dissestate dei paesi industrializzati.

 

Nuovi impulsi di crescita grazie alla fine delle dittature e con le liberalizzazioni

 

Doha, capitale del Qatar

Secondo gli esperti, queste economie andrebbero prese seriamente in considerazione perché i recenti cambiamenti politici stanno sfociando in quelle liberalizzazioni che costituiscono le valide premesse per una crescita futura.

La caduta dei regimi dittatoriali nel Nord Africa e i movimenti di destabilizzazione in atto nella penisola araba rappresentano sicuramente il punto di svolta per un promettente sviluppo di queste ricche aree geografiche da sempre tenute compresse. Tuttavia – spiega Mark Mobius, chairman del Templeton Emergin Market Team – i contesti dove il potere non è frutto di elezioni democratiche sono destinati a subire pressioni crescenti e questo potrebbe portare a periodi di forte volatilità. E’ il classico rischio paese per un investitore. Poi c’è il rischio liquidità che a volte viene meno a seguito di conflitti o rivolte sociali, come ad esempio di recente in Egitto e in Libia dove le borse sono rimaste chiuse per molto tempo. Esiste poi tutta una serie di fattori di pericolo – prosegue Mobius – che devono essere presi in considerazione, come l’alta sensibilità ai prezzi delle materie prime agricole che in alcuni paesi ha contribuito a innescare le “rivolte del pane”, oppure l’eccessivo sbilanciamento dell’economia verso un singolo settore, tipicamente quello energetico, senza dimenticare l’inflazione e il rischio cambio. Pertanto è opportuno affidarsi a gestori specializzati per effettuare investimenti in questi paesi.

 

Quatar, l’astro nascente del Golfo Persico

 

Fra le aree più promettenti, ci sono il Vietnam, l’Indonesia e il Bangladesh, centri di nuova industrializzazione manifatturiera a basso costo e fortemente orientati all’export. Le previsioni di crescita del Pil per quest’anno sono del 6,2% per tutti e tre i paesi, mentre per i prossimi quattro anni, se tutto va bene, dovrebbero superare mediamente il 7% a fronte di un tasso di disoccupazione che si attesta intorno al 5%. Unico problema, l’inflazione che supera abbondantemente il 10%, ragion per cui si consiglia di investire direttamente in obbligazioni denominate in dollari o tramite fondi specializzati. Ma la perla di queste nuove aree di frontiera è il Quatar (rating Standard & Poor’s AA). Nel 2011 il Pil dovrebbe registrare una crescita del 19% con una media di salita del 13% negli ultimi 10 anni.

Se a questo paese si aggiunge un’inflazione poco superiore al 4% e un debito/Pil che in Europa ci si sogna (13,5%), il quadro è perfetto. Il driver di crescita di questo stato di appena 1,7 milioni di abitanti sono l’ampia disponibilità di combustibili fossili e l’aumento della spesa pubblica connesso al piano di sviluppo nazionale. Per il futuro gli esperti prevedono un rallentamento della crescita dovuta al calo volontario della produzione di gas naturale, ma il piccolo emirato arabo potrà sempre sfoggiare una crescita costante del prodotto interno lordo di oltre il 6%, secondo le previsioni più pessimistiche. Fra i titoli obbligazionari più promettenti, segnaliamo la società energetica Qatar Gas Transpor 6,07% 2033 (Isin: USY62014AA64) da 850 milioni di dollari che rende 5,5% a scadenza o il Qatari Diar Finance 5% 2020 (Isin: XS0527351653) da 2.500 milioni di dollari che rende il 4,25% colosso attivo nel settore immobiliare e delle costruzioni. Fra i titoli di stato, evidenziamo il bond più corposo (vedi grafico a fianco) presente sul mercato da 3,5 di dollari Qatar 4% 01/2015 (Isin: XS0468466486) che rende il 2,7% a scadenza. Subito dietro al Quatar, gli economisti hanno individuato il Kazakistan che grazie all’aumento del prezzo del petrolio, dell’oro e degli investimenti pubblici, ha messo a segno nel 2011 una crescita dell’8,5%. Percentuale destinata a scendere nei prossimi anni, ma comunque a rimanere sostenuta per via del basso tasso di disoccupazione (+5%) e grazie al rapporto debito/Pil intorno al 13%.