Lo spread continua ad oscillare attorno ai 240 punti base, pur sotto l’apice dei 250 toccati a metà giugno. La tensione sui titoli di stato italiani resta elevata dopo la caduta del governo Draghi e la convocazione di nuove elezioni per settembre. Da qualche giorno, sulla stampa si parla di rischio di ridenominazione in crescita per i BTp. Cerchiamo di capire di cosa si tratti. Sui mercati esistono da diversi decenni i cosiddetti “credit default swaps”, in sigla CDS. Sono titoli che assicurano contro il rischio default.

Ad esempio, se acquisto i CDS a 5 anni su un investimento di 10 milioni di euro di BTp, oggi come oggi mi ritrovo a pagare annualmente 168 punti base o 1,68%. Se acquistassi Bund per lo stesso importo, pagherei appena 16 punti base o 0,16%, dieci volte in meno. Perché? Il rischio default in Italia è prezzato molto più alto che in Germania, per quanto pur sempre molto basso in valore assoluto.

I CDS nel 2014 sono stati rivisti dall’ISDA (International Swaps and Derivatives Association), comprendendovi anche il rischio di ridenominazione dei titoli di stato. In altre parole, rispetto alle clausole contrattuali fissate nel 2003, viene presa in considerazione anche l’eventualità che uno stato non riesca o voglia rimborsare il debito nella valuta di emissione, bensì in un’altra. L’esempio calza a pennello per l’Eurozona, dove negli anni passati il rischio di ritorno alle monete nazionali è stato percepito, a un certo punto, relativamente elevato.

Rischio ridenominazione BTp in crescita da un anno

Poiché i CDS secondo ISDA 2014 proteggono dal rischio di ridenominazione e i CDS secondo ISDA 2003 no, se un investitore temesse che l’Italia esca dall’euro, dovrebbe puntare ad acquistare i primi. E così, lo spread tra i prezzi dei due CDS tende a svelarci quale sia l’evoluzione e l’entità percepita del rischio Italexit.

Più esso è elevato a favore dei primi, più tale probabilità è ritenuta alta. Un anno fa, esso si attestava nell’ordine dei 25 punti base o 0,25%, mentre già un mese e mezzo fa stava a 70 punti. Cos’è accaduto nel frattempo? Il rialzo dei rendimenti, seguito all’aumento dell’inflazione e alla previsione di tassi BCE più alti, ha accresciuto i timori circa la sostenibilità del debito pubblico italiano restando nell’euro.

Con la caduta del governo Draghi, tale spread è salito ulteriormente fino a portarsi ai livelli massimi dal 2018. Durante i primi mesi di vita del governo “giallo-verde”, infatti, lo spread tra CDS-ISDA 2014 e CDS-ISDA 2003 superò i 110 punti o 1,10%. Ai timori per la sostenibilità fiscale dell’Italia con l’aumento dei costi di emissione si aggiunge l’incertezza sull’esito delle elezioni politiche. E così, il rischio di ridenominazione è prezzato ancora più alto, sebbene sia doveroso chiarire che, allo stato attuale, l’ipotesi che in futuro l’Italia lasci l’euro e torni alla lira sia meno di zero. Non esiste proprio. Nessun partito persegue esplicitamente tale obiettivo dopo la lezione del 2018.

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