“Salve, vorrei delle delucidazioni riguardo il fallimento di uno stato, cioè ipotizziamo che io detengo i titoli di stato dell’Argentina e tra un anno il suo governo dichiara default e non paga più le cedole. In questo caso, cosa succede? Ipotizzando il bond dell’Argentina che scade 2117: l’investitore perde del tutto i suoi soldi? Poi se lo stato fallisce e in futuro si vuole finanziare sul mercato può farlo senza pagare i creditori precedenti?”.

Rispondiamo al nostro lettore e, indirettamente, a una delle preoccupazioni per la maggiore tra gli obbligazionisti sovrani di stati a rischio.

Il default scatta quando un governo non riesce a onorare una o più scadenze del debito pubblico, decorso l’eventuale periodo di grazia previsto dalle condizioni contrattuali fissate in fase di emissione dei bond. Tecnicamente, non costituisce un vero fallimento, almeno non come lo concepiamo nel diritto commerciale. Non c’è nessuno tra gli esponenti delle istituzioni che porta i libri in tribunale, ma dal momento che una o più scadenze vengono saltate, il governo avvia il complesso processo di ristrutturazione del debito, magari beneficiando nel frattempo dell’assistenza finanziaria del Fondo Monetario Internazionale.

Ora, qui entriamo in un ambito di per sé non del tutto prevedibile, anzi. Se un’azienda fallisce, esistono regole certe su come i creditori possano rivalersi, seguendo le quali risulterebbe possibile almeno una loro soddisfazione parziale. Ma se i beni aziendali possono essere escussi, non lo stesso dicasi per quelli dello stato. In teoria, i titoli del debito vengono emessi sotto la legge nazionale o, in moltissimi casi per quelli in valute forti nei paesi emergenti, sotto quella americana o britannica. La normativa anglosassone si mostra più favorevole ai creditori, ragione per cui i bond che la contemplano ispirano maggiore fiducia e attirano più capitali. Tuttavia, il caso dell’Argentina negli anni passati ha dimostrato che nemmeno il giudice americano, pur quando desse ragione agli obbligazionisti, può nel concreto obbligare lo stato insolvente a pagare.

Si perde tutto l’investimento? Sempre in teoria, no. La ristrutturazione del debito consiste essenzialmente in: allungare le scadenze (“roll over”), tagliare il valore nominale dei bond (“haircut”) e ridurre l’entità percentuale delle cedole o, infine, un mix di tutte queste opzioni. Ad esempio, se posseggo un’obbligazione in scadenza nel 2025 dal valore nominale di 1.000 dollari e cedola 10%, il governo dello stato in default potrebbe patteggiare con gli obbligazionisti – questi ultimi riuniti in apposita assemblea – una nuova scadenza nel 2035, una riduzione del valore del titolo a 700 dollari e il taglio della cedola al 5%. Non avrò perso tutto l’investimento, ma certo che ci rimetterò abbastanza, in termini di minore rendimento, capitale parzialmente “bruciato” e rimborso posticipato.

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Cosa succede concretamente dopo il default?

A dire il vero, uno dei principali problemi è dato dalle lungaggini proprio in fase di negoziazione con i creditori. L’Argentina ci ha impiegato ben 15 anni per chiudere definitivamente la questione su chi avesse diritto a quanto. E il governo ha un’arma di ricatto verso gli obbligazionisti, tale da indurli spesso ad accettare condizioni assai penalizzanti: non essendo un debitore escutibile, può anche decidere di non pagare alcunché, cioè di auto-azzerarsi i debiti. A quel punto, l’unica arma che rimarrebbe a disposizione del mercato sarebbe di non prestare più denaro a quello stato, il quale a sua volta sarebbe così sempre costretto a chiudere il bilancio in pareggio per l’impossibilità di finanziare anche solo temporaneamente l’eccesso di spesa, tranne che non adottasse soluzioni disastrose come la monetizzazione del deficit, facendo la fine del Venezuela di Nicolas Maduro.

E se trovasse investitori compiacenti, come grandi banche d’affari internazionali allettate dai lauti rendimenti offerti? Se i titoli su cui grava il default fossero stati emessi sotto la legge americana, questa impedisce allo stato di discriminare tra i creditori, per cui risulta vietato pagare alcuni e non altri. Un principio di “par condicio”, che nel 2014 portò l’Argentina al default “tecnico”, essendo stati i suoi conti bloccati per il rifiuto di Buenos Aires di soddisfare i cosiddetti fondi “avvoltoi”.

Venendo a crisi più vicine nel tempo e per geografia, nel 2012 la Grecia stessa subì una ristrutturazione del debito, seppure senza essere passata formalmente da un default. I suoi bond vennero ridotti di valore del 53,5%, facendo risparmiare ad Atene 107 miliardi di euro. In più, vennero sostituiti con bond di nuova emissione e scadenze tra 11 e 30 anni. I creditori privati, quindi, si ritrovarono con titoli più che dimezzati e allungati di diversi anni o decenni. Nell’Unione Europea, le cosiddette “Clausole di Azione Collettiva” (CAC) dal 2013 hanno agevolato i processi di ristrutturazione e in questi mesi si sta discutendo nell’Eurozona di rendere ancora meno stringenti le regole di convocazione delle assemblee, così da consentire velocemente e con scarsi ostacoli di pervenire a nuove condizioni contrattuali.

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