Riad può sorridere, perché il provider FTSE Russell Index ha annunciato di aver lanciato un indice apposito per i titoli del debito pubblico sauditi a tasso fisso e denominati in valuta locale. I bond devono avere durata residua superiore ai 12 mesi ed essere stati emessi nell’ammontare minimo di 1 miliardo di rial, pari a 266,65 milioni di dollari. Vi rientrano anche i Sukuk, i titoli compatibili con la Sharia, la legge islamica che formalmente vieta di prestare denaro dietro interesse. Al 31 luglio scorso, si calcola che 45 obbligazioni sovrane saudite soddisfacevano i requisiti per essere incluse nell’indice, per un controvalore totale di 273,2 miliardi di rial o 72,9 miliardi di dollari.

Tra un mese, il mercato obbligazionario saudita verrà sottoposto a revisione e si specula che i titoli di stato saranno inclusi nell’FTSE Emerging Markets Government Bond Index (EMGBI).

Per il regno, una buona notizia. L’inclusione negli indici internazionali rappresenta sempre occasione di acquisto per investitori stranieri a caccia di diversificazione del portafoglio e non intenzionati ad entrare direttamente in un dato mercato emergente. Flussi di capitali potrebbero dirigersi a Riad, anzitutto allettati dai rendimenti relativamente più elevati di quelli vigenti sui mercati maturi, oltre che dalla solidità dei fondamentali macro.

Perché i bond potranno tradire e a svelare l'”inganno” è stata un’emissione saudita

I fondamentali macro solidi

L’economia saudita sta accusando il colpo dell’emergenza Covid, perlopiù a causa del crollo della domanda globale di greggio, di cui è prima esportatrice al mondo. Resta il fatto che il suo rapporto debito/pil nel 2019 si attestava intorno al 20%, avanzato sin dal 2015, quando il regno riprese ad emettere titoli di stato a medio-lungo termine dopo quasi un decennio, al fine di tamponare le casse dello stato a seguito della crisi del greggio.

Tuttavia, non solo l’indebitamento risulta ancora oggi assai basso, ma si consideri che Riad dispone di riserve valutarie per quasi 450 miliardi di dollari, per cui avrebbe modo di rimborsare i debiti senza nemmeno emetterne di nuovi.

In più, da 35 anni mantiene fisso il cambio tra rial e dollaro a un rapporto di 3,75, per cui gli investitori stranieri possono confidare anche sui bond in valuta locale. Si capisce perché, quindi, il regno riesce a rifinanziarsi sui mercati internazionali a costi abbastanza contenuti. Il bond in dollari con scadenza 22 aprile 2060 e cedola 4,50% (ISIN: XS2159975882), ad esempio, offre oggi un rendimento del 3,30%, a fronte di una durata residua di 40 anni. E a poco meno del 3% viaggia il bond ottobre 2046, sempre cedola 4,50% e sempre in dollari (ISIN: XS1508675508).

Questi titoli offrono un buon posizionamento rialzista, nel caso si creda a un recupero delle quotazioni petrolifere per i prossimi mesi e se si è a caccia di rendimenti più elevati di quello anglosassoni, europei e nipponici, pur senza doversi addossare rischi seri. I rating sauditi sono medio-alti: “A-” per S&P, “A” per Fitch e “A1” per Moody’s. Peraltro, la compagnia petrolifera statale Aramco riesce a estrarre a pochi dollari al barile, il resto va in tasca allo stato per alimentare le entrate pubbliche. Da qui, la necessità di allentare la dipendenza dall’oro nero, che il principe ereditario Mohammed bin Salman ha fatto sua con il varo di un vasto programma riformatore denominato “Saudi Vision 2030”.

Bond in dollari dell’Arabia Saudita: rendimenti allettanti, ma preoccupa la crisi fiscale

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