Il grafico dei Bund ci mostra rendimenti tedeschi sempre più gelidi, con il decennale in calo di ben mezzo punto percentuale in appena 4 mesi. E considerando che a novembre si attestava proprio di poco al di sopra dello 0,50%, capiamo subito che stiamo parlando di un azzeramento. Nelle ultime sedute, il bond a 10 anni emesso dalla Germania offre tra lo 0,06% e lo 0,08%, il minimo da due anni e mezzo. Sembra solo questione di tempo prima che torni in territorio negativo. Del resto, la scadenza a 9 anni ci è piombata di nuovo e dopo i toni “dovish” mostrati dalla BCE all’ultimo board di una settimana fa, il mercato obbligazionario sovrano tedesco ha ingranato la retromarcia, diventando ancora meno generoso.

Bund glaciali, ecco perché nel tratto lungo della curva sarebbero iper-comprati

I Bund sono percepiti come “porti sicuri” (“safe haven”) dai rischi internazionali di varia natura. Per questo, gli investitori li acquistano quando temono per i loro capitali, vuoi per ragioni geopolitiche, vuoi per l’andamento storto dell’economia, vuoi anche per eventuali tensioni finanziarie. Di fatto, possiamo anche considerarli un indice di paura. Più costano, più alto sarebbe lo stato di guardia sui mercati. In pratica, come se si trattasse di titoli assicurativi. Così accade anche per i bond giapponesi, che sempre sulla scadenza decennale sono tornati a rendere sottozero, dallo 0,16% a cui si erano portati nell’ottobre scorso. E dire che lì, la Banca del Giappone si è da anni posta l’obiettivo dichiarato di tenere i rendimenti a 10 anni “intorno allo zero”, così da tenere la curva delle scadenze un minimo ripida.

Solo la paura sostiene i Bund?

Ma siamo davvero di fronte solamente a un caso di “fly to quality”? In altre parole, gli investitori starebbero acquistando i titoli tedeschi per la loro solidità, godendo del rating “AAA”, o ci sarebbe dietro qualcos’altro? Di certo, c’è che le finanze statali tedesche siano tra le più invidiabili al mondo.

Quest’anno, il rapporto debito/pil in Germania dovrebbe scendere sotto il 60%, un caso più unico che raro tra le grandi economie del pianeta. E se si guarda ai conti annuali, si rimane ancora più positivamente sorpresi. Berlino chiude il bilancio federale in attivo sin dal 2014 e il debito pubblico scende costantemente persino in valore assoluto dopo il 2012.

Perché i Bund della Germania avrebbero perso la funzione di segnale su tassi e cambio nell’Eurozona

Avete presente l’orologio del debito, che molti istituti di statistica nel mondo attivano per segnalare ai contribuenti dei rispettivi stati di quanto crescano le esposizioni pubbliche di secondo in secondo, minuto in minuto, etc.? Ecco, in Germania va indietro, cioè con il trascorrere dei secondi, anziché indebitarsi, i tedeschi di sdebitano sempre più. Basterebbe questo dato forse per capire come mai i Bund vadano così a ruba. In un mondo in cui il debito pubblico e privato non fa che crescere, l’economia tedesca segnala di distinguersi, con famiglie, imprese e stato ad attenersi fedelmente alla propria proverbiale austerità.

Debiti “efficienti” in Germania

Ma il debito, sostengono in molti, serve anche a crescere e non dovrebbe essere guardato solo con occhi negativi. Guardiamo com’è andata in Italia, Francia e Germania negli ultimi 20 anni, cioè da quando è nato formalmente l’euro. Nel nostro Paese, tra la fine del 1998 e la fine del 2008, il debito pubblico aumentò di oltre 413 miliardi, il pil di poco più di 500. Pertanto, ogni euro di debito generò allora 1,21 euro di ricchezza. Dal 2009 al dicembre scorso, invece, il debito è cresciuto di oltre 645 miliardi, mentre il pil di appena 122. Di conseguenza, ricaviamo che per ogni euro di debito, la ricchezza generata è crollata ad appena 19 centesimi.

In Francia, il primo decennio nell’euro comportò 541 miliardi di debito pubblico e quasi 650 in più di pil, per cui anche in questo caso un euro in più del primo generò 1,20 euro di ricchezza. Da allora, però, il rapporto è crollato a meno di 37 centesimi, il doppio che in Italia, ma poco più di un quarto del decennio precedente. E in Germania? I 470 miliardi di maggiore debito pubblico al 2008 avevano generato 557 miliardi di ricchezza, segnalando un rapporto di 1,19, persino di poco inferiore a quello di Italia e Francia. Successivamente, invece, il debito è cresciuto “solo” di 381 miliardi, ma il pil di ben quasi 825, pari a un rapporto di 2,16. E se restringiamo l’analisi agli ultimi 6 anni, troviamo che il debito si è ridotto di 150 miliardi, mentre il pil risulta cresciuto di quasi 628 miliardi. In soldoni, per ogni 4,18 euro di ricchezza in più, i tedeschi riducono di 1 euro il loro debito pubblico.

Debito pubblico, questione di interessi: ecco come Francia e Germania ci battono sui conti

Questo significa che i Bund tendono a diventare relativamente scarsi in relazione alle dimensioni economiche della Germania e che si rivelano molto più efficaci di BTp e Oat nel generare ricchezza o, comunque, che l’economia tedesca non avrebbe bisogno della “droga” del debito per crescere, a differenza dei principali partner europei. Volendo estremizzare, diremmo che i titoli di stato in paesi come Italia e Francia sarebbero sempre più “tossici”, nel senso che ce ne vogliano in quantità crescenti per generare lo stesso livello di ricchezza, mentre in Germania si rivelano virtuosi, riuscendo a generare crescita anche diminuendo quantitativamente. Naturale che il mercato punti su questi ultimi e rifugga da titoli come i BTp, le cui emissioni semmai non farebbero che innalzare il rapporto debito/pil.

I Bund e il fattore “storico”

Ci sarebbe ancora dell’altro. Guardate il grafico in fondo all’articolo: capta l’andamento dei Bund da quasi 60 anni a questa parte. Si possono individuare almeno 7 punti di minimo, che segnano il livello più basso toccato dai rendimenti tedeschi al termine di una fase calante e che a loro volta preannunciano una fase rialzista.

L’aspetto interessante sta nel constatare che i primi 4 si aggirano tutti attorno allo stesso livello del 6% o poco meno. Parliamo del ’68-’69, del ’78, dell’86-87% e del ’93-’94. Successivamente, i punti di minimo si rivelano più bassi, ossia sotto il 4% a fine anni Novanta e al 3% nel 2005. Dopo l’ultima crisi del 2008-’09, i Bund sono scesi e risaliti più volte, ma apparentemente all’interno di una tendenza ribassista di lungo periodo, culminata nell’estate del 2016 con il decennale a sfiorare il -0,20%. Da allora, la ripresa c’è stata, ma senza vigore, tant’è che il rendimento starebbe riportandosi verso i minimi storici.

Quale possibile spiegazione? Non sfuggirà il fatto che l’inflazione sia costantemente diminuita presso le economie avanzate da inizio anni Ottanta ad oggi. E non a caso, proprio da oltre 35 anni a questa parte sembra essere in corso una fase ribassista anche per i rendimenti sovrani. Tuttavia, se fosse solo questo, non si capirebbe come mai i Bund a 10 anni continuassero a sfoggiare punti di minimo nel 1994 del tutto uguali a quelli dei decenni precedenti, mentre non è stato più così 5 anni dopo. Effetto euro? Eppure, il marco tedesco non ebbe certo sui mercati alcuna risi di credibilità come la lira, tale da dovere essere soppiantato dalla moneta unica. Anzi, oggi sarebbe risultato più forte di quest’ultima.

Alla Germania restare nell’euro conviene davvero?

Probabile, allora, che i titoli del debito della Germania siano percepiti più sicuri nell’ultimo ventennio, a seguito della riunificazione, riuscita con successo, pur tra tante difficoltà. Sarebbe venuto meno il principale rischio geopolitico che fino a inizio anni Novanta gravava su Berlino e l’euro avrebbe rassicurato sui Bund non in quanto moneta, quanto per il suo segnalare la definitiva chiusura di una fase storica di contrapposizioni tra stati, beneficiando la percezione che si avrebbe oggi della Germania come di un partner affidabile e pienamente inserito nel contesto europeo, di cui è leader di fatto. Viste così le cose, dovremmo convivere con lo spread, a meno che un giorno la struttura dell’Eurozona non cambi dalle fondamenta, il che non sembra attuale.

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