Con i ribassi dei prezzi di questi mesi, il mercato obbligazionario sta esitando rendimenti nominali di gran lunga più interessanti di quelli che ci lasciammo alle spalle alla fine del 2021. Peraltro, i bond emessi anni fa con cedole relativamente elevate, iniziano ad allettare. Prendiamo il BTp 2047 con tasso d’interesse fisso al 2,7% (ISIN: IT0005162828). E’ sceso a una quotazione intorno a 94 centesimi, per cui la cedola annua netta effettiva incide per il 2,51%. In altre parole, questo titolo ci offre un flusso di reddito ogni anno teoricamente sufficiente a coprire l’inflazione di lungo periodo.

Attualmente, il BTp 2047 ci offre un rendimento netto del 2,73% e lordo superiore al 3,10%. Una buona soluzione per investire su una scadenza a 25 anni. Il bond fu emesso nel 2016 come trentennale. Da allora, la quotazione risulta scesa di quasi il 6%. Allo stesso tempo, ha fatto incassare cedole nette per il 14,7% dell’investimento. E nel frangente, l’inflazione cumulata in Italia è stata del 10,8% (al 31 marzo di quest’anno).

BTp 2047 colpito dall’inflazione

In altre parole, se oggi rivendessimo il BTp 2047 a distanza di oltre 6 anni dall’acquisto, il nostro bilancio sarebbe negativo. Il rendimento netto complessivo risulterebbe del 9% scarso, a fronte di una perdita del potere d’acquisto di circa il 2% più alta. Non un buon affare. C’è da dire che questo titolo raggiunse il suo massimo storico agli inizi dello scorso anno, quando la quotazione superò 130. Se lo avessimo rivenduto allora, avremmo portato a casa un rendimento lordo di circa il 43,5%, pari al 38% netto. E a fronte di un’inflazione cumulata di appena il 3,5%.

Dunque, il bilancio deriva certamente dal momento in cui entriamo e usciamo dal mercato. Il BTp 2047 risente negativamente del crollo dei prezzi accusato dai bond negli ultimi mesi. D’altra parte, esso consegue alla più alta inflazione negli ultimi 40 anni presso le principali economie avanzate.

In Italia, è schizzata al 6,5% a marzo, negli USA all’8,5% e in Germania è arrivata al 7,4% in aprile. Nessuno avrebbe immaginato sei anni fa che un rendimento netto del 2,35% sarebbe stato solo una frazione del potere d’acquisto perduto a causa del carovita.

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