La riunione del board BCE ha esitato ieri qualche modifica alla “forward guidance” sui tassi, lasciando intravedere un loro prossimo abbassamento, oltre a una riattivazione degli acquisti di assets con il “quantitative easing”. Il segnale abbastanza “dovish” del governatore Mario Draghi in conferenza stampa non lascia indifferente la Federal Reserve, che prossima settimana tiene anch’essa il suo board e dovrebbe tagliare i tassi. Di quanto? Il mercato crede che possa farlo per 50 centesimi (0,50%), ma i dati macroeconomici americani non autorizzano una simile previsione.

In attesa che oggi venga confermato il rallentamento (atteso) dell’economia USA nel secondo trimestre, con il pil ad essere probabilmente cresciuto meno del 2%, resta il fatto che il mercato del lavoro versi in piena occupazione e che nessuna recessione sarebbe all’orizzonte nel breve e medio periodo.

Corporate bond “spazzatura” meno rischiosi grazie alla Fed e le scadenze si allungano

Il mercato scommette su novità altrettanto “dovish” da Atlanta, se è vero che il rendimento a 10 anni del Treasury sia crollato dal 3,25% di novembre alla media del 2% di questi giorni. Com’è stato possibile un simile collasso in pochi mesi, senza che segnali negativi siano arrivati dall’economia a stelle e strisce? La risposta non è unica. Per prima cosa, esistono da tempo dubbi sulla sostenibilità di tassi “normali” anche in America, pur mostrandosi la sua economia abbastanza forte. Secondariamente, i tassi di uno stato risentono di quel che accade nel resto del mondo. E il 2,50% a cui sono stati portati nel dicembre scorso, per quanto storicamente bassi, oggi si rivelano mostruosamente elevati rispetto ai tassi azzerati o negativi in giro per Europa e Giappone.

Vero, l’inflazione americana è stabilmente più alta di quella delle altre principali economie e i salari crescono a ritmi superiori al 3% su base annua, ma il solo fatto che la Fed abbia fissato tassi più alti, quando altrove ci si aspetta che non salgano nemmeno nei prossimi mesi, evidenzia il rischio per l’America di importare deflazione, attraverso il “super dollaro”.

Flussi di capitali si dirigono verso gli USA dalle altre economie per essere impiegati in assets più redditizi. Ciò rafforza il cambio americano e fa infuriare l’amministrazione Trump, perché di questo passo finirebbe per colpire l’economia domestica. E la stessa inflazione ripiegherebbe ben al di sotto del target del 2%.

La possibile reazione dei mercati

La Fed ha nei fatti due alternative: escludendo che si spinga fino a indispettire i mercati e a rinviare il taglio dei tassi a settembre, essa potrà o abbassarli di 25 punti base o di 50. Nel primo caso, la reazione degli investitori potrebbe essere di parziale frustrazione. Essi giudicherebbero probabilmente più alto il rischio di recessione a medio termine per l’economia USA e di non centrare il target d’inflazione. E se i rendimenti a breve risentono più direttamente della politica monetaria, quelli a lungo viaggiano insieme alle aspettative d’inflazione, per cui il mercato si sposterebbe sui Treasuries a 10 anni e più, facendone arretrare i rendimenti ulteriormente. Ciò provocherebbe l’appiattimento della curva più di quanto non sia già avvenuto, se non una sua inversione definitiva.

Il taglio dei tassi atteso della Fed fa collassare i rendimenti “junk” negli USA

In conclusione, se la Fed non riuscisse a fine luglio a segnalare la sua capacità di imbracciare il “bazooka” per reflazionare l’economia americana e per allontanare decisamente il rischio di recessione da essa, i rendimenti a lungo termine potrebbero tendere ai livelli europei e nipponici da qui a pochi mesi. Il solo fatto che il mercato scontasse tassi Fed comunque superiori a quelli del resto del mondo avanzato anche per il prossimo futuro accelererebbe l’afflusso di capitali negli USA, gonfiando i prezzi dei bond più longevi.

Solo se la Fed tagliasse i tassi con maggiore piglio, quasi paradossalmente questo scenario sarebbe schivato, sostenendo le aspettative d’inflazione e indebolendo il dollaro.

[email protected]