Gli analisti già parlano dei bond perpetui come il “new normal” dei mercati obbligazionari dopo il Coronavirus. Appannaggio quasi esclusivamente delle economie emergenti in cerca di capitali per consolidare i debiti sovrani, molto più raramente corporate, negli ultimi anni si sono affacciati a questo mercato anche emittenti molto solidi, come l’Austria, il Belgio e l’Irlanda. La storia di maggiore successo è della prima, mentre per gli altri due parliamo di collocamenti privati. Nei giorni scorsi, Vienna ha emesso un bond a 100 anni con rendimento dello 0,88%, registrando una domanda di otto volte superiore all’importo offerto.

Partenza super-sprint per il bond a 100 anni dell’Austria: tutti lo vogliono, perché?

Negli anni passati, altre grandi economie emergenti si sono approcciate ai titoli secolari. Una è stata l’Argentina nel 2017, solamente un anno prima di andare a gambe per aria per via della tempesta valutaria che l’ha travolta. L’altra è stata il Messico. Questi fu il primo stato latinoamericano nel 2010 ad avere raccolto capitali su una scadenza a 100 anni. Lo fece con un’emissione in dollari e cedola 5,75% per il bond 12 ottobre 2110 (ISIN: US91086QAZ19). Questo titolo ha avuto alti e bassi sul mercato secondario, con la relativa quotazione ad essere oscillata tra un minimo di 85 centesimi e un massimo di 130. Entrambi i valori sono stati paradossalmente toccati quest’anno a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro.

Infatti, prima che il Covid-19 si diffondesse fuori dall’Asia, gli investitori erano andati a caccia di titoli del mercato a reddito fisso per ripararsi dalle tensioni e i prezzi si erano oltremodo gonfiati. Il 5 marzo scorso, il suddetto bond arrivò a offrire un rendimento minimo del 4,38%. Se lo raffrontassimo rispetto a meno di mezzo punto percentuale del rivale austriaco ci sembrerebbe ugualmente tanto, ma ricordiamoci che parliamo di un’economia emergente e neppure brillante per tassi di crescita.

Rispetto ai minimi di marzo, il titolo ha guadagnato il 30% e ieri rendeva il 5,06%.

I rischi del bond secolari messicani

Nel 2015, sempre il Messico provò ad attirare capitali a lunghissimo termine con una nuova scadenza a 100 anni, stavolta denominata in euro. Il bond 15 marzo 2115 e cedola 4% (ISIN: XS1218289103) ha avuto i suoi minimi a inizio 2016, inizio 2017 e nel marzo scorso, tutti in area 80 centesimi. Il 24 febbraio scorso, invece, toccava il suo massimo storico a 125 e pari a un rendimento di poco inferiore al 3%. Ieri, la quotazione segnava +24% dai minimi di marzo, salita a 93 centesimi, mentre il rendimento si attestava al 4,38%, circa una settantina di punti base in meno rispetto alla scadenza in dollari, risentendo evidentemente delle aspettative di apprezzamento dell’euro per i prossimi anni.

Il rating del Messico è “investment grade” per un soffio, sostanzialmente quanto quello dell’Italia: “BBB” per S&P, “BBB-” per Fitch e “Baa1” per Moody’s. A parte l’emergenza Coronavirus, il paese è gravato da inefficienze pubbliche, che si ripercuotono negativamente sulla percezione che i mercati hanno del suo debito. Basti pensare a Pemex, il colosso petrolifero statale con oltre 100 miliardi di dollari di passività, che rischiano di ricadere sul bilancio dello stato, pesando per quasi il 10% del pil. Sia il rating sovrano che quello della compagnia sono esposti al rischio di “downgrade” delle agenzie a “junk” o “spazzatura”.

La caduta del Messico tra i debitori “spazzatura” è quasi scontata sui mercati

Rendimenti del 4-5% “a vita” oggigiorno appaiono impensabili. A meno di non temere il default, un pensiero a questi titoli non andrebbe negato. Serva d’insegnamento, però, la lezione dell’Argentina, che due anni dopo la fine del secondo default (pur solo tecnico) in 15 anni riusciva a galvanizzare i mercati con un’emissione a 100 anni e offrendo una cedola del 7,125%.

Adesso, questo titolo quota sotto i 40 centesimi e rientra tra quelli oggetto di ristrutturazione del debito pubblico estero, in corso di negoziazione con i creditori. Altri fattori di rischio sarebbero l’inflazione e l’implosione del tasso di cambio, quest’ultimo con riferimento al bond in dollari per noi dell’Eurozona. Esiste, infine, il pericolo di non riuscire a rivendere tempestivamente il bond nel caso di rialzo dei tassi e/o di fabbisogno finanziario, a causa della scarsa liquidità degli scambi.

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