Lo Zimbabwe ha raggiunto un accordo con il Commercial Farmers Union, definito “un nuovo inizio” per il paese dal presidente Emmerson Mnangagwa. Si tratta di un maxi-indennizzo da 3,5 miliardi di dollari per l’espropriazione delle terre nei primi anni Duemila, avvenuta ai danni di circa 4.000 proprietari bianchi e che l’allora presidente Robert Mugabe ritenne essere una sorta di risarcimento per i danni accusati dalla popolazione nera in era coloniale. Parte di questa ingente somma, pari ad oltre il 16% del pil nel 2019, sarà finanziata con l’emissione di un bond a 30 anni sui mercati esteri.

I prezzi sugli scaffali dei supermercati aumentano prima di arrivare alla cassa, incubo iperinflazione in Zimbabwe

La notizia sta facendo il giro del mondo, perché l’economia dell’ex Rhodesia versa in condizioni disastrose, stretta tra un’inflazione al 700%, un pil già crollato di oltre l’8% nel 2019 e in caduta libera con il Covid e un’occupazione per il 90% informale. Nel paese scarseggia di tutto, un po’ come nel Venezuela di Nicolas Maduro a cui Harare è accomunata dall’ideologia socialista portata avanti dai padri dell’indipendenza dal Regno Unito negli ultimi 40 anni. Di fatti, oggi il pil pro-capite risulta del tutto simile a quello ereditato dal colonialismo.

Le obbligazioni internazionali verrebbero garantite dalle esportazioni di materie prime, tra cui oro, platino e diamanti. In teoria, lo Zimbabwe è ricco di “commodities”, ma non riesce nemmeno a estrarle per le politiche restrittive e di chiusura agli investimenti stranieri. E con capitali privati interni carenti non si è rivelato possibile alcuno sfruttamento adeguato, anche perché le compagnie sono in mano allo stato, il quale a sua volta ha mezzi molto scarsi per investire.

Bond Zimbabwe ad altissimo rischio

Lo Zimbabwe ha debiti esteri non onorati per 8 miliardi di dollari verso creditori come la Banca Mondiale e la Banca Africana per lo Sviluppo.

Per questo, non può accedere ad alcuna linea di credito del Fondo Monetario Internazionale, mentre USA e UE gli impongono sanzioni per l’esproprio illegale di ormai quasi venti anni fa ai danni dei coloni bianchi. In effetti, l’accordo riporterebbe un minimo di stato di diritto nel paese, oltre a una maggiore fiducia dei mercati, ad oggi spaventati dai metodi non ortodossi del governo locale.

Zimbabwe svolta dopo Mugabe e tende la mano ai bianchi, ma il mercato resta guardingo

Tuttavia, appare molto, molto difficile anche solo pensare che il paese possa essere in grado di emettere debito in valuta estera e per un ammontare rilevante da qui a breve, sebbene abbia fatto circolare l’ipotesi di incassare entro 12 mesi almeno parte delle risorse necessarie per implementare l’accordo dalla vendita dei terreni nelle aree circostanti alle grandi città. Peraltro, i 3,5 miliardi previsti sono appena un terzo del valore stimato delle terre espropriate, essendo state riconosciute ai vecchi proprietari solamente le migliorie apportate negli anni della loro conduzione.

Per quanto questa sia una fase eccezionale sui mercati internazionali e gli investitori si mostrino a caccia anche di assets ad alto rischio, pur di ricavare rendimenti accettabili, finanziare lo Zimbabwe equivarrebbe a gettare soldi in un pozzo e metterci una croce sopra. E a quali tassi d’interesse verrebbero emessi titoli di così lunga durata? Le garanzie sarebbero credibili in un’economia iper-statalizzata e dove le esportazioni di materie prime risultano costantemente basse per assenza di capitali e volontà politica di attrarne dall’estero?

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