Il provider FTSE Russell ha approvato l’inserimento dei bond sovrani cinesi nel suo indice a partire dall’ottobre di quest’anno. Tuttavia, il completamento dell’operazione avverrà in 36 mesi, anziché nei 12 mesi precedentemente annunciati. Il maggiore lasso temporale si sarebbe reso necessario per via della natura dell’indice, molto ambito tra gli ETF, i fondi con gestione passiva. E pare che avrebbero fatto molta opposizione i fondi pensione del Giappone, tra i più attivi sul World Government Bond Index (WGBI).

Sul WGBI risulterebbero accese posizioni per 2.500 miliardi di dollari, di cui a regime il 5,25% sarà il peso assegnato alla Cina, seconda economia mondiale e che si ritroverebbe alla pari del Regno Unito. Pertanto, sono attesi afflussi di capitali per circa 130 miliardi, pari a 3,6 miliardi al mese per i tre anni a partire dal prossimo ottobre.

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I possibili vantaggi dall’inclusione nell’indice

Per Pechino, l’opportunità di attirare la finanza straniera, già allettata anche dalla scarsa correlazione che il mercato obbligazionario cinese segnala di avere rispetto al trend dei mercati avanzati. L’inserimento avviene dopo che i bond cinesi erano stati accettati a fare parte degli indici rispettivamente di JP Morgan e Bloomberg Barclays. Potrebbe trattarsi di un salto di qualità definitivo per questo mercato, dove ancora i rendimenti si attestano su livelli significativamente più elevati che negli USA, in Europa e Giappone.

Dovete pensare che la scadenza a 10 anni continua a offrire il 3,20% e quella a 2 anni sfiora il 3%. Il Treasury a 30 anni, pur dopo la netta risalita degli ultimi mesi, si ferma sotto il 2,5%, quello a 10 anni sotto l’1,75% e sulle scadenze brevi praticamente si rasenta lo zero. In Europa, il “benchmark” tedesco offre rendimenti negativi fino alla scadenza dei 20 anni, mentre quella a 30 anni non arriva allo 0,30%.

Capite benissimo che l’inserimento dei bond cinesi sarà una discriminante forte per gli investitori. In un solo colpo, un ETF potrà sia offrire una “yield” più elevata, sia diversificare il rischio. Peraltro, la loro graduale maggiore internazionalizzazione ridurrebbe il rischio di cambio, già di per sé assai basso, se si considera che lo yuan contro il dollaro scambia agli stessi livelli di dieci anni fa.

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