Da inizio anno ha perso il 5,5% e dalla data di emissione di nemmeno due anni fa un sonoro 25%. Il bond secolare dell’Argentina (ISIN: US040114HN39) in dollari non sta avendo grossa fortuna, quando mancano “appena” 98 anni alla sua scadenza nel 2117. Il collocamento sul mercato avvenne in un clima di ottimismo e semi-euforia a metà del 2017, quando la presidenza di Mauricio Macri faceva sperare con le sue prime riforme economiche nell’avvio di una nuova era per lo stato sudamericano.

Un anno più tardi, la stessa Argentina tornava nell’occhio del ciclone dei mercati finanziari, con il peso a collassare e l’inflazione ad impennarsi. Il rendimento all’atto dell’emissione fu dell’8,25%, oggi risulta salito a poco meno dell’11%.

A preoccupare gli investitori, come sappiamo, c’è la prospettiva non improbabile di un ritorno a Casa Rosada niente di meno che di Cristina Fernandez de Kirchner, la “presidenta” tra il 2007 e il 2015, artefice del secondo default in meno di 15 anni di Buenos Aires e di una politica economica tanto demagogica, quanto dannosa per l’Argentina. I mercati temono che una sua vittoria possa riportare le tensioni con i creditori e gli organismi internazionali a cui siamo stati abituati fino all’ultimo giorno del suo mandato.

I tango bond dell’Argentina crollano sui timori di un ritorno di Kirchner

Elezioni spartiacque per i bond

Per questo, molti stanno già vendendo i “Tango bond”, al fine di mettersi al riparo da possibili diatribe legali con l’eventuale nuova amministrazione. L’esito delle prossime elezioni presidenziali, quindi, appare binario: se rivince Macri, corsa ai bond; se vince Kirchner, fuga dai bond. Per quanto deludente possa sembrare l’attuale governo, qualche risultato lo ha già incassato, pur insufficiente. A marzo, per il secondo mese consecutivo è stato segnato un surplus primario per i conti pubblici, mentre la bilancia commerciale ha chiuso in attivo di 1,18 miliardi di dollari, dato che si confronta con un disavanzo di 554 milioni dello stesso mese dello scorso anno.

L’economia argentina ha bisogno di riforme per crescere e fondate sull’allentamento dei vincoli burocratici a carico delle imprese, sulle liberalizzazioni, sulle privatizzazioni e l’eliminazione della spesa pubblica improduttiva, stimata intorno al 7,5% del pil, caratterizzata da sussidi elargiti generosamente alle famiglie e perlopiù in forma di prezzi bloccati per beni e servizi primari. L’austerità fiscale si rende necessaria, ma è impopolare. Il rischio è che Macri esca di scena prima che possa dimostrare agli argentini i benefici delle sue azioni, mentre ad oggi questi vivono sulla loro pelle solo un’inflazione al 55% e gli effetti della recessione. E così, dopo un recupero di circa il 25% realizzato tra Natale e inizio febbraio, il bond secolare è tornato a quotare fin sotto ai minimi del dicembre scorso. E fino alle elezioni di ottobre, non vi sarà alcuna ripresa stabile.

Crisi argentina senza fine, gli aiuti dell’FMI non bastano

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