Nuovi passi in avanti nelle trattative tra Argentina e creditori esteri sulla ristrutturazione di 66 miliardi di dollari di debito sovrano emesso in valuta americana e in euro. Stando al ministro delle Finanze, Martin Guzman, le distanze con il gruppo Ad Hoc Argentine Bondholder Group si sarebbero di molto ridotte al giovedì scorso, ma non a tal punto da poter stringere ancora un accordo, quando mancherebbero ormai poco più di 24 ore per la scadenza dell’ennesimo ultimatum imposto agli obbligazionisti. Nell’offerta iniziale avanzata dal governo e respinta in blocco da tutti i grossi gruppi di obbligazionisti che si sono formati nel corso di questi mesi, Buenos Aires richiedeva: un periodo di grazia di tre anni, nel corso dei quali non sarebbero stati effettuati i pagamenti di cedole e di capitale; il taglio degli interessi dei due terzi fino al 2,33% massimo, giù dal 7% medio attuale; il taglio del capitale del 5,4%.

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In tutto, i risparmi stimati per lo stato sarebbero stati di 41,5 miliardi. Adesso, la nuova proposta punta ad ammorbidire le suddette condizioni. Come? La durata di alcuni dei 10 bond che sarebbero emessi al posto dei 21 da ristrutturare verrebbe accorciata, così come il periodo di grazia sarebbe ridotto di un anno e gli interessi offerti si mostrerebbero più generosi. Nel dettaglio, i primi pagamenti dovrebbero scattare già da fine 2021 e non più da fine 2022 e al posto delle nuove obbligazioni in scadenza nel 2030, 2036, 2043 e 2047 se ne avrebbero altre in scadenza nel 2030, 2035, 2042 e 2046.

Intesa definitiva resta difficile

Inoltre, mentre prima solamente il bond 2043 avrebbe offerto una cedola fino a un massimo del 4,875%, adesso si prevede che a tale tasso giungano i titoli in scadenza nel 2035, 2038, 2042 e 2046. E i titoli denominati in euro con cedole step-up arriveranno ad offrire anch’essi di più, fino al 3,75%.

Non sappiamo ancora quale sarebbe il risparmio atteso dallo stato con questa seconda proposta, ma chiaramente i 41,5 miliardi di cui sopra si abbasserebbero, probabilmente risultando superiori ai 36 miliardi a cui i due principali gruppi di creditori – Ad Hoc ed Exchange Bondholder Group – nei giorni scorsi si erano mostrati disponibili a rinunciare, attraverso un’offerta che contemplava la riduzione dei tassi d’interesse a una media del 4,25% e l’allungamento delle scadenze a 13,3 anni, con un taglio dei pagamenti a carico dello stato al 2023 per un totale di 23,8 miliardi.

Una volta che si arrivasse a un accordo con almeno questi due gruppi principali, detentori di circa il 30% dei bond oggetto di rinegoziazione, l’intesa dovrebbe essere sottoscritta da almeno un altro 45% abbondante di obbligazionisti, dato che le Clausole di Azione Collettiva qui prevedono che la ristrutturazione debba essere approvata da almeno il 75% dei creditori. Non sarà un’operazione facile, perché tra i vari gruppi si ha una forte divergenza di interessi sulla base del tipo di strumento acquistato, della durata dei titoli posseduti e dei prezzi di acquisto. Va da sé, ad esempio, che chi avesse rastrellato i “Tango bond” negli ultimi mesi, fiutando il rischio default, li avrà pagati spiccioli e, di conseguenza, avrà bisogno di tassi di recupero relativamente bassi per rientrare nell’investimento speculativo e maturare un profitto. I più esposti alle perdite sarebbero coloro che con l’arrivo di Mauricio Macri alla presidenza nel 2015 avevano sperato realmente in un cambio di passo di Buenos Aires, finanziando il suo governo a tassi relativamente bassi.

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